lunedì 18 aprile 2016

Il mare a Zahesi


Acquistai la macchina fotografica nell’estate del 2014 in un negozio di Tbilisi, con il sincero desiderio di utilizzarla come strumento di lavoro. Acquistai una reflex. Sino a quel momento avevo utilizzato una macchina fotografica compatta.

In ben poco tempo, lo strumento divenne parte di me, della mia identità. Il suo uso mi ha cambiato profondamente durante tutto il percorso della mia ricerca. La macchina fotografica costringe l’occhio, la mia persona a rileggere, attraverso l’obiettivo della camera, il senso dei luoghi e delle persone. Ogni inquadratura e la conseguente foto, non sono frutto di scatti occasionali, improvvisati. Al contrario, ho voluto dare una visione del campo di ricerca che non fosse solamente uno «spazio» al di fuori di me, che non fossero «persone» lontane da me, ma che vi fosse un dialogo intimo, continuo, dove l’estetica fosse unita alla pratica, attraverso un attimo unico ed irripetibile

«Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. Essa è il Particolare assoluto, la Contingenza suprema, spenta e come ottusa, il Tale (la tale foto, e non la Foto), in breve, la Tyche, l’Occasione, l’Incontro, il Reale, nella sua espressione infaticabile» (R. Barthes, La camera chiara 1)

La versatilità dello strumento, la sua praticità, mi hanno permesso di leggere e rileggere costantemente l’ambiente e l’umanità intorno. Mi accorsi dopo poco tempo, che ogni fotografia, pur rappresentando il medesimo spazio, seguivano non solamente le esigenze della ricerca in quel momento e della «volontà» di rappresentare, in aggiunta a quella di descrivere, ma che, considerandola ormai una parte di me, essa agiva secondo l’umore e la mia idea. Interessante fu anche il dare la possibilità agli informatori di scattare fotografie loro stessi. Questo mi permise di non avere una visione univoca e unilaterale della realtà, ma di ottenere così anche «sguardi dal di dentro», con foto ancor più personali.


Uscii di corsa dal mio appartamento e decisi di attraversare la lunga strada che taglia in due Zahesi e che permette di raggiungere il monastero di Jvari. Mi sentii entusiasta di avere quello strumento tra le mani. Mi sentii entusiasta perché finalmente avrei potuto raccontare (anche a me stesso), quella realtà.

Mi inoltrai in una zona del quartiere a me nuova. Alcune donne conversano animatamente tra loro. Il nero degli abiti le disegna sulle pareti grige del palazzo. Chiedo loro dove porti la strada. Guardano la macchina fotografica. Una di loro indica distrattamente una direzione. Proseguo ugualmente. La realtà non è mai come vorremmo (o quasi). Dopo alcuni passi noto per caso un piccolo edificio, parzialmente coperto dalla vegetazione. Sulle pareti lisce e grige, si animano figure di danzatori e suonatori, arrestati solo dalla immobilità della stessa materia di cui non sono fatti i sogni. è il mio soggetto. Dopo aver fotografato alcuni palazzi, finalmente un soggetto su cui testare il nuovo strumento. Non fu facile. Mi accorsi di non essere sensibile. Persi così fiducia, e dopo alcuni scatti (scarsi), abbandonai mestamente il tentativo.

Tuttavia, la giornata di sole prometteva bene e decisi di insistere. Pensai meno al nuovo «giocattolo» e più invece a guardarmi attorno, alla ricerca, come se Robert Capa fosse tornato a Tbilisi, di qualche soggetto interessante. Attorno la vegetazione. Qualche edificio in cemento semi distrutto e nulla più. Incrociai sulla strada alcuni ragazzi. Ridevano, tra loro o di me. Non chiesi loro nulla. Avrei scoperto da solo il mio soggetto. Dopo aver girovagato lungo le strade sterrate, notai per caso una enorme macchia blu tra la vegetazione. L’avevo trovato. Aveva tutta l’aria di essere una fontana o uno spazio gioco per bambini. Non lo seppi mai. Pesci, onde, alghe. I minuscoli tasselli che compongono e componevano il mosaico, erano stati posti con molta cura da qualche operaio o artista incaricato da Brezhev in persona o più semplicemente da un solerte funzionario locale, per ravvivare l’ambiente. Il mare a Zahesi. Kitano a Zahesi.


Kelaptari: Sacekvao. Dall’album Georgian Dancing Melodies (2012)

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venerdì 15 aprile 2016

Internazionalismo


La Georgia è il paese delle centrali idroelettriche. Grazie ai suoi fiumi abbondanti che corrono giù da alte montagne, e le venticinque centrali idroelettriche, essa è l’unico paese europeo che non solo completamente si provvede dell’energia verde, ma è anche in grado di esportarla.

«Con l’elettroficazione (sic!) contro la controrivoluzione!”

Viaggiando da Tbilisi lungo il Kura verso la frontiera armena, dopo Borjomi uno strano edificio industriale di stile barocco stalinista appare a destra. La stessa versione orientale del barocco stalinista, decorata con archi alti e profondi, che dal 1930 diventò dominante nel Caucasu, e che tuttora fiorisce negli edifici moderni di Jerevan e Baku. Attorno ad esso, una frazione di poche case, il suo nome è Chitakhevi, ovviamente creata per il supporto della centrale elettrica.



Benché io sia in un minibus, chiedo al gruppo di attendere qualche minuti, mentre fotografo il fenomeno. Avvicinandomi al palazzo, la guardia appare al cancello. «Buongiorno. Che cosa è questa struttura?» prendo l’iniziativa per evitare il suo interrogatorio. «La stazione di trasformazione della centrale idroelettrica.» «Quando è stata costruita?» «Dopo la guerra. Ha iniziato a lavorare nel 1949. Voi da dove siete?» «Il gruppo dall’Ungheria, io dalla Germania.» «Bene, allora siete stati esattamente voi a costruirla.»


Il progetto Как воевали плотины, che documenta la storia degli impianti idroelettrici sovietici tra il 1914 e il 1950, dedica un articolo al grande numero delle centrali idroelettriche costruite da prigionieri di guerra tedeschi, giapponesi, ungheresi e italiani durante o subito dopo la guerra. L’articolo quota dalle memorie del tedesco Hubert Deneser, che ha lavorato alla costruzione della centrale a Uglič, pubblicate anche in russo. «Ho lavorato ventidue mesi a Uglič. Ho dovuto correre su e giù centoventiotto scale con due secchi d’acqua alla betoniera. Ho imparato un sacco di tecniche di costruzione. Quando nel 1948 sono tornato dalla prigionia in Germania, ho costruito la mia casa da solo. D’inverno abbiamo tagliato ghiaccio dal Volga, d’estate abbiamo portato letame fuori ai campi. Lì abbiamo incontrato anche ragazze, abbiamo scherzato, abbiamo riso.» Doveva essere una vita idilliaca.



giovedì 14 aprile 2016

Elettrificazione


Zahesi quartiere. Il suono del nome del complesso residenziale sovietico, stabilito nella periferia nord-occidentale di Tbilisi al supporto della centrale idroelettrica, suggerisce antiche origini georgiane. Tuttavia, il nome non è né antico, né georgiano. In realtà si tratta dell’acronimo russo per Земо-Авчальская ГЭС (гидроэлектростанция), vale a dire, «Zemo Avchala Centrale Idroelettrica», costruita negli 1920 per realizzare il sogno di Lenin, il Piano GOELRO per l’elettrificazione di tutta la Russia Sovietica.



Il potere sovietico più l’elettrificazione è comunismo. Le otto navi ammiraglia del grande piano sono state designate in tutto il paese. Una di loro fu aggiudicata alla Giorga, in parte per industrializzare la città più grande del Caucaso, e in parte per controllare il fiume che ha spesso inondato la città. La posizione della centrale idroelettrica fu designata direttamente sopra Tbilisi, dove il fiume Kura entra in città, al di sopra del millennario villaggio Avchala, che diventa una parte di Tbilisi e un quartiere industriale sovietico solo nel 1962, e per oggi, una deserta città fantasma. È vero che il bacino idrico della centrale, e, per quanto appare sulle vecchie mappe, anche la diga apparteneva al molto più significativo Mtskheta. Sotto questa città, la sede della Chiesa georgiana, il fiume Aragvi, che scende dalle montagne del nord, scarica nel Kura, che viene dal sud. Oggi, come risultato dello sbarramento, essi costituiscono un magnifico ramo per la città, anche se ne hanno tagliato alcune delle strade più basse lungo il fiume.


Nel periodo però sarebbe stato impensabile dare il nome di un centro ecclesiastico a una centrale idroelettrica, specialmente se l’ulteriore anche portava il nome di Lenin, come tutte le prime otto centrali. Era già preoccupante che, se piaceva a loro o no, la chiesa più antica della Georgia, di Jvari, cioè Santa Croce, costruita nel 7º secolo, dominava la diga dal vicino monte. Era sicuramente per un contrappeso visuale che nel 1927, dopo il compimento della centrale, si è eretta una statua monumentale di Lenin vicino alla diga, uno dei primi monumenti di Lenin nel paese.

La statua fu progettata dallo scultore Ivan Dmitrievich Shadr (per il suo nome originale, Ivanov, 1887-1941), le cui qualità artistiche e l’impegno rivoluzionario era sopra ogni sospetto. Prima del 1917 ha studiato a Parigi, dove era un seguace di Bourdel e Rodin, e dopo il 1917 ha strettamente collaborato con Lenin sulla realizzazione della «propaganda monumentale» prevista da quest’ultimo. La statua di Lenin progettata vicino alla ZAGES è un ramo importante dell’iconografia di Lenin che si sta consolidando proprio in quel momento, il prototipo del «Lenin che mostra», che sarà seguito da migliaiai di varianti in tutto l’impero. Il tipo è stato ulteriormente reso popolare dalle illustrazioni che propagavano l’immagine della centrale idroelettrica in tutto il paese, come ad esempio le stampe di Ignatij Nivinskij, o l’affresco monumentale di Vasilij Maslov, recentemente scoperto nella Casa Bolscevica nel quartiere Korolev di Mosca.

Ignatij Nivinskij: Monumento a Lenin alla ZAGES, stampa, 1927

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Negli cento anni passati, tanta acqua scorreva giù nel Kura. La centrale idroelettrica s’invecchiò, e lo stato georgiano, che non ha i soldi per la ricostruzione, l’ha venduta nel 2007. Il nuovo proprietario, GeoInCor la opera solo a intermittenza. Dai due insediamenti che ne portano il nome, dal complesso residenziale Zahesi e dal quartiere industriale Avchala, fuggono i residenti. Il primo a scomparire era lo stesso Lenin, la cui statua è stata rimossa nel 1991. Il piedistallo vuoto è misericordiosamente coperto dagli alberi che crescono di anno in anno. Se si ferma a un certo punto della strada Mtskheta-Tbilisi, e nella piccola foresta si guada tra l’erba gambaletto alla riva del Kura, si vedrà, che dopo un breve interludio, il fiume e la montagna hanno riconquistato il loro millennario regno sul paesaggio.



L. Utesov: Suliko, anni 1930

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mercoledì 13 aprile 2016

Sonno di una notte di mezza estate


«non si svende non si svende
neanche se non funziona
neanche se non funziona
niente saldi di speranze
niente saldi di esistenze»
«I soviet più l’elettricità non fanno il comunismo.» Da qualche mese mi trovavo a Tbilisi, presso l’abitazione di un amico, in un quartiere alla periferia di Tbilisi. Kommunalki, blocchi di cemento, numeri civici scritti con lo spray, numeri del «blocco» scoloriti dal tempo. Biancheria e tovaglie penzola dai fragili supporti metallici dei balconi. Cani randagi. Tassisti assonnati nelle loro auto. Estate. Uomini sotto una tettoia. Fumo di sigaretta. Mozziconi sparsi tutt’intorno. Voci e urla rituali. ნარდი, nardi, backgammon. Ragazzi attorno si affollano nella speranza di capire qualche segreto. Dal settimo piano dove è situato il mio appartamento, in una zona qualsiasi di un quartiere qualsiasi posso vedere ogni cosa. Gli alberi, i cani randagi, la lenta vita di periferia. Donne si affaticano con enormi borse della spesa. Estate. Quaranta gradi nell’appartamento. Fuori stanche torri sorreggono cavi elettrici. Su Tbilisi già da giorni la cappa del caldo si è unita a quella vischiosa dello smog. L’ascensore, ლიფთი, costa 5 tetri ogni volta. Mi riferiscono che durante l’epoca sovietica quei soldi servivano a pagare il «capo-blocco», una sorta di amministratore che si sarebbe occupato anche della manutenzione. Ora il «capo-blocco» è scomparso. Rimangono però l’ascensore e i dieci piani del kommunalka. La città da qui non si vede. Troppo lontano il centro storico. Lo sguardo arriva sino ai kommunalki, di cemento di Didi Dighomi, enorme quartiere della periferia di Tbilisi, che negli ultimi anni sta avendo un impetuoso sviluppo economico. Cambiato il governo, ugualmente si costruiscono palazzi იყიდება. Così ho deciso di chiamarli. Su ogni casa vecchia o nuova di questa periferia, compare, come un anonimo proprietario la scritta იყიდება, «vendesi», e un numero di telefono. La periferia si sta spopolando. Vecchie famiglie partono. Nuove non arrivano. L’economia stenta a decollare. Sarà l’estate. Sarà il crollo del lari, sarà l’inflazione, la disoccupazione, l’emigrazione. Sarà la Georgia. La città, dal mio palazzo sembra lontanissima. Niente grandi magazzini. Niente «Goodwill» di Didi Dighomi, niente centro commerciale «Tbilisi Mall». La città è lontana.

La centrale idroelettrica è ancora lì. Ritmo ridotto. Una vecchia fabbrica di cemento sovietica, lavora ancora. Turni diversi, lavoro diverso. Non più il radioso futuro socialista. Ultima fermata.


«vali molto di più
di un aumento economico
meriti molto di più di un posto garantito
che non avrai che non avrai»
La prigione, la banca, un supermercato e negozi di frutta e verdura. È tra questi vicoli, tra il calore insopportabile dell’asfalto nei mesi estivi, l’aggressività dei cani randagi che ho iniziato. Imparare a vivere, poi la lingua. La vita lenta, e durissima, del quartiere. Le urla dei vicini, gli ubriachi, litigi. Il quartiere, ogni giorno più silenzioso. Partenze. Il progetto, di epoca sovietica, prevedeva che i kommunalki fossero gli alloggi per gli operai della centrale, e per le loro famiglie. L’Unione Sovietica è improvvisamente scomparsa ed assieme ad essa il lavoro. Le vie del quartiere hanno nomi che evocano e marcano il senso ed il significato di un’ideologia e di un’epoca, il futuro radioso della tecnologia: «Energetikosi».

Ora, la mappa che offre Google Maps è molto più precisa. È possibile leggere bene i volumi degli edifici (tutti uguali); le vie sono cambiate. Ben si adattano al nuovo corso storico e politico della Georgia contemporanea. Nomi di politici e di personalità georgiane, non necessariamente recenti. La storia qui, rimbalza, ritornando sempre. Anche in una strada di periferia è possibile immaginare una comunità, una nazione. È possibile fare politica e riconoscersi, sentire di appartenere, anche da qui, a qualcosa di più grande. Non più simboli di regime. Identità rifondate. Graffiti sul muro, მიყვარხარ. Adesivi, «Dinamo Tbilisi». Il campetto sintetico di calcio a cinque, verniciato di fresco, voluto dalla politica di riqualificazione dell’allora Presidente Saakashvili. Ora il nome rimane solo nelle parole di strada, nei manifesti strappati. Ora brilla pallidamente la stella di ქართული ოცნება, «Sogno georgiano». Ivanishvili. Cambia il governo, cambiano i nomi. Non cambiano i kommunalki, non cambiano i cani randagi. Cambiano le generazioni. Cambierà?

I brani proposti sono tratti dal testo della canzone «Manifesto» dei «CCCP - Fedeli alla linea».


CCCP – Fedeli alla linea: Manifesto. Berlino Est, 1983


martedì 12 aprile 2016

Un anno in Subcarpazia


Il 17 gennaio, quando le foto della Subcarpazia di László Végh si sono pubblicate nel Magyar Nemzet, le ho condivise nel Facebook di río Wang. Adesso, in preparazione al nostro viaggio di fine aprile in Galizia, le ho guardate di nuovo, e ho pensato di condividerle anche sul blog, in modo che possano essere viste da più persone, e non solo in ungherese.

Olena si è trasferita molti decenni fa da Mosca a Kőrösmező/Yasinya

«Grazie alla borsa di studio della fotografia di József Pécsi, il fotoreporter di Magyar Nemzet ha visitato più volte Subcarpazia. Si è incontrato con soldati di ritorno dai campi di battaglia, famiglie in lutto per i loro parenti, rifugiati tatari della Crimea. E con una straordinaria ospitalità.


A un fotoreportaggio importante non si avvia senza preparativi. Anch’io ho cominciato di informarmi sul tema prima di andare nella Subcarpazia. Prima di tutto ho contattato un giornalista locale, che mi ha accompagnato per diversi luoghi, mi ha presentato a tante persone, e quando necessario, ha tradotto per me. Era il mio fixer: così si chiamano, nel gergo giornalista, le persone con una conoscenza locale che, nel corso di un importante lavoro sul campo, guidano e assistono i giornalisti e fotografi stranieri.

La prima volta che sono andato lì era marzo. Mi ricordo chiaramente del giorno. Sono andato a Verbőc/Verbovec, al funerale di un soldato caduto nel conflitto dell’Ucraina orientale. Dopo trecento e sedici chilometri sono arrivato alla frontiera. Passaporto. Documenti. Controllo. Arrivo in Subcarpazia. Strade dissestate. Le impronte del passato, ovunque. Grigiore. Pioggia battente. E, sulla via d’uscita di Bereszász/Beregovo, multa di polizia. Non poca. Quasi un’ora di ritardo. Sono tornato esausto al mio alloggio.

Funerale di Viktor Márkusz. Ha servito nel 128ª Brigata di Fanteria di Montagna

Per quanto ho provato, nei primi tempi non riuscivo a trovare il ritmo locale. Poi mi hanno presentato a sempre più persone che mi hanno aiutato. Ad esempio, a zia Slava, il cui figlio è un 22-enne soldato contrattuale. Lei, che è in contatto permanente con i soldati della Subcarpazia sul fronte, conosceva la risposta a tutte le mie domande, e mi ha aiutato in tutto. D’altra parte insegna lingua ucraina nella classe ungherese di una scuola bilingue.

E molto spesso ho avuto fortuna. Per esempio, in Kőrösmező/Jasinya, dove siamo partiti nella direzione sbagliata verso la montagna, e così ci siamo imbattuti in Olena, che si era trasferita dalla Russia a Subcarpazia. O quando una sera, strada facendo al nostro alloggio, ci siamo accorti di una candela tremolante in una finestra vicina. I nostri padroni di casa ungheresi ci hanno detto che una vecchia signora vive lì, Mária András, che prega così ogni mattina e sera. Siamo riusciti di visitarla, e mi ha permesso di fare alcune foto di lei mentre pregava. O zio Frédi a Fancsika/Fančikovo, che ha sentito del mio vagare in Subcarpazia, e che sto fotografando la vita quotidiana delle persone. Ha detto a un amico nel villaggio che sarebbe felice di mostrarmi le sue colombe.


E c’erano le famiglie ungheresi che hanno perso i loro cari nella recente guerra. Ho passato ore con loro. Tante volte non ho neanche preso fuori la macchina fotografica, abbiamo solo parlato. Il 16 settembre, Sándor Lőrinc è stato sepolto a Fancsika. Quando ho sentito la notizia, mi sono seduto in macchina, e sono andato a vedere la famiglia la sera precedente. Mi sono presentato, ho detto chi ero, da dove sono venuto, che cosa volevo. Ho parlato molto con la madre di Sándor, zia Anna. Mi hanno permesso di essere presente alla veglia notturna in una piccola stanza della piccola casa, alla bara coperta con la bandiera ucraina. Il giorno dopo, al funerale c’erano molte persone, tutti gli abitanti del villaggio. E anche molti soldati ucraini, che avevo già incontrato a Verbőc in marzo. Sono venuti a salutarmi, e hanno detto che sperano di incontrarmi la prossima volta a un evento più allegro.

Dopo il funerale volevo tornare a Budapest. Ma la zia Anna mi ha detto che non posso andare via prima di cenare con loro. Ho fatto le scuse, ma non mi ha lasciato andare. Mi hanno anche impaccato ciambelle per la via. Budapest è lontano.

Fancsika/Fančikovo. Funerale del soldato ungherese Sándor Lőrinc, caduto nel conflitto dell’Ucraina orientale

Dovunque sono andato in questo periodo in Subcarpazia, mi hanno dato un benvenuto cordiale. E non solo le famiglie ungheresi. Ho anche visitato famiglie tatare che erano fuggite dalla Crimea, e con le quali abbiamo parlato attraverso un programma di traduzione. I bambini hanno apprezzato molto che a volte non ci siamo capiti, e ci siamo spiegati per gesti. Activity. Ho visitato soldati, volontari, che raccoglievano cibo e vestiti per i soldati della Subcarpazia sul fronte. A Aknaszlatina/Solotvino, fra le rovine della vecchia miniera di sale, ci siamo imbattuti in zio Yura, che vi aveva lavorato, e ora è guardiano notturno nella zona della miniera. Abbiamo anche incontrato lo zio Béla, nel cui giardino c’è un enorme «cratere», perché il terreno era crollato sopra una miniera.

Il numero degli ungheresi in Subcarpazia si è drasticamente ridotto. Nel censimento del 2001 circa centocinquantamila persone si sono dichiarati ungheresi. Ci sono molti matrimoni misti, dove i bambini non parlano più l’ungherese. Nella desolente situazione economica tutti provano di trovare lavoro all’estero. La situazione di quelli che decidono di rimanere è molto più difficile. Loro vivono su pochi soldi da un giorno all’altro, ma credono che restare non è senza speranze, e che avranno un futuro nella loro terra. La quale, per i capricci della storia, ha cambiato paese cinque volte negli ultimi cento anni.»

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