venerdì 8 gennaio 2016

Il «Martirio di Santo Abo» di Ioane Sabanisdze

La chiesa di Metekhi a Tbilisi, con la chiesa di Santo Abo al piedi del ponte, a sinistra

«Accogliete, amici di Cristo e devoti dei martiri, questa storia gioiosa del santo martire e guerriero di Cristo, [che narra] come egli fu incoronato da Cristo con onore e gloria.» [Shurgaia 2003: 231]

«Mese di gennaio, nel giorno settimo.» Con questa precisa indicazione temporale inizia il testo di Ioane Sabanisdze – abbiamo poche notizie sull’autore, forse un ecclesiastico o un laico, vissuto nel VIII e IX sec. –, redatto per desiderio del Katholikos Samoel di Kartli e dedicato al «Martirio di Abo, santo e beato martire di Cristo» (opera databile tra il 786 e il 790), precisando, «martirizzato per mano dei saraceni in Kartli, nella città di Tiflis, il 6 gennaio dell’anno 846» [in realtà 786, ndr] * La festa del santo martire Abo Tbileli (di Tbilisi, in georgiano აბო თბილელი), il santo protettore di Tbilisi si celebra l’8 gennaio, il giorno che segue il Natale ortodosso, come vuole la prassi liturgica, dove le feste del santi, non possono coincidere con le dodici feste del Signore, e vengono così posticipate. La chiesa al santo dedicata si trova ai piedi della fortezza di Metekhi, sulle rive del fiume Mt’k’vari, accanto al ponte di Avlabari.

L’abside della chiesa di Santo Abo


1. La Georgia cristiana

L’attuale posizione geografica della Georgia, che si estende quasi per intero tra il Piccolo Caucaso e il Grande Caucaso, ne ha da sempre fatto un vero e proprio corridoio, per innumerevoli strade ed incroci. Non una semplice terra di passaggio, ma qualcosa di più complesso. Una terra che ha da sempre assorbito, utilizzato, inventato e trasformato. Vicende storiche, politiche, sociali e religiose si sono alternate nei suoi territori. Si tratta quindi di una terra che ha fatto della relazione, dell’incontro e dell’interrelazione il proprio punto di forza.

All’epoca non esisteva l’entità politica georgiana nella sua veste attuale, come gli altri paesi limitrofi, ma le terre ed i luoghi che provengono dalle descrizioni rimasteci, collocano in maniera precisa, con la visione del tempo, posti e situazioni. Non una identità già data, ma un’identità continuamente rifondata e messa, continuamente riletta e ricostruita. Frutto appunto di una posizione geografica, ma non solo.

Cappella nel cortile della chiesa di Santo Abo, sulle rive del fiume Mt’k’vari

Senza dubbio, il cristianesimo, la Chiesa, assieme alla lingua e al suo alfabeto, hanno avuto, come adesso, il loro ruolo e una «responsabilità», nella costruzione dell’identità georgiana. La Chiesa georgiana, con le sue prerogative di autocefalia, è attraverso «la presa di coscienza del valore della propria Chiesa, nella visione di Ioane Sabanisdze, il primo passo verso l’acquisizione della coscienza nazionale, nutrita dalla fede cristiana». [2003: 131-32].

«Infatti non soltanto i greci [bizantini] poterono ottenere questa fede che è da Dio, ma anche noi, abitanti in questo lontano [paese], come testimonia il Signore e dice: ʻmolti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe’ (Mt 8,11). Ecco anche la Kartli ha la fede ed è chiamata la Madre dei Santi: alcuni [dei quali] vi abitavano, altri, invece, stranieri venuti tra noi da lontano e in epoche diverse, [Santi] rivelatisi come tali per opera di Gesù Cristo, nostro Signore, al quale è la gloria nei secoli dei secoli, amen.» [2003: 215]

Fine della vecchia storia, inizio di un nuovo corso per i georgiani di Kartli. E il martirio di Santo Abo sarà il fondamento di questo nuovo.

L’icona di Cristo davanti alla cappella di Santo Abo


2. La conquista araba

I secoli VII-VIII portano grandi sconvolgimenti politici e sociali per la Kartli e per tutto il Vicino Oriente. Crollano l’impero persiano e bizantino sotto i colpi degli arabi. Anche la Kartli, con le sue istituzioni, la sua chiesa e le sue chiese, venne coinvolta, a più riprese. Stessa sorte toccò all’Armenia. Prima gli arabi si limitarono a brevi scorrerie, negli anni 640-43, poi nell’VIII secolo consolidarono il loro dominio.

Nel 654 gli arabi, sotto la guida di ibn Maslamah, dopo aver sconfitto i bizantini di Mauriano, entrarono in Kartli. L’accordo di pace, il «Kitāb Ṣulḥ», ossia «contratto di riconciliazione».

«…i georgiani non avrebbero potuto mettersi sotto la protezione di āʿdaʿ Āllah, i «nemici di Dio». Gli arabi garantivano la libertà di culto, pur accogliendo, evidentemente, tutti i cristiani desiderosi di abbracciare l’islamismo. In altre parole i georgiani diventavano i ḏimmī, «protetti», membri di una società riconosciuta dallo Stato arabo.
Il patto conferma ancora una volta l’opinione secondo cui lo scopo principale del dinamico califfato non fu la conversione dei popoli all’islamismo, ma la conquista di nuove terre ed il dominio sugli infedeli. In questa prospettiva, la libertà religiosa aveva una forte rilevanza economica per ambedue le parti: per i cristiani a motivo del gravame fiscale e per gli arabi a motivo delle entrate fiscali che garantiva.» [2003: 97-99]


L’accordo durò un paio d’anni. Si susseguirono alterne vicende e altre numerosi invasioni da parte degli arabi e l’arrivo dei cazari contribuì a rendere ancor più complicata la situazione. I piccoli regni georgiani erano del tutto impossibilitati nel far fronte alla potenza araba.

Con l’arrivo degli ʿĀbbāsīdi, nel 750 la situazione per le popolazioni caucasiche e cristiane si aggravò ulteriormente e la dominazione si fece più dura. Iniziò la persecuzione dei cristiani:

«Venivano umiliati anche coloro che passavano all’islamismo: dovevano comportarsi nel modo prestabilito per evidenziare che, pur professando il Profeta, erano tuttavia i servi, i vinti, in quanto non appartenenti alla stirpe araba.»

L’emirato di Tiflis alla sua fondazione nel 750, e cento anni dopo. Putzger historischer Weltatlas, 2005. Dall’articolo «Emirat von Tiflis»



3. La conversione di Abo

La vicenda di Santo Abo si svolge esattamente in questo periodo. Siamo nella Kartli, più precisamente a Tiflis (Tbilisi), descritta dall’agiografo Ioane Sabanisdze. Epoca tragica, dalle cui macerie tuttavia, un’epifania.

«[…] I nostri dominatori, padroni in questo tempo (1Cor 2,6) […] in molti ci fecero traviare dalla via della verità facendoci così tradire il Vangelo di Cristo, [noi] che stiamo ai margini del mondo e che da oltre cinquecento anni [siamo] entrati nella fede tramite il santo battesimo della grazia. […]. [N]oialtri, che siamo [rimasti] fedeli, schiavizzat[i] con la violenza ed incatenati dalla miseria e dalla povertà […], siamo resi piccoli (Dn 3, 37) dalla paura e scossi come una canna da venti violenti; eppure per l’amore ed il timore di Cristo, camminando in modo consono alla [nostra] patria [tradizione], sopportando ogni sventura, non ci separiamo dal Figlio Unigenito di Dio. In un tale tempo apparve il santo martire con la sua grandezza.» [2003: 199-200]

La figura di santo Abo Tbileli, viene così tratteggiata da Ioane Sabanisdze:

«Egli nacque da figli di Abramo, [appartenenti] alla stirpe dei saraceni, figli di Ismaele. Non era quindi un seme straniero, e nemmeno era nato da una concubina, ma era del tutto arabo, di padre e di madre; i suoi genitori ed i fratelli vivevano nella città di Baghdād di Babilonia. Era giovane di diciotto, o forse diciassette anni.
Egli volle accompagnare il principe Nerse, diventando suo servitore. Aveva [pure] un mestiere: sapeva preparare bene gli unguenti ed era istruito nei libri dei saraceni, abramitici, figli di Ismaele nato da Agar.» [2003: 217-8]


Santo Abo con la spada, il simbolo del suo martirio. Miniatura del 18º secolo

La conversione del Santo Abo, come fu per Abramo, San Paolo e nella storia georgiana nelle figure di Santa Nino e di Re Mirian, scaturì da una chiamata diretta di Dio. Così, il desiderio di intraprendere il viaggio verso la Kartli, terra «Madre dei Santi», aderendosi al corteggio di Nerse, principe di Kartli, che dopo tre anni di cattività a Baghdad tornò nel suo paese, non fu una sua idea, ma indicazione di Dio.

«[…] Egli divenne amato per la sua virtù da tutto il popolo, imparò inoltre a leggere e a scrivere nella lingua georgiana, parlandola con facilità.
Quindi si mise a studiare con zelo le sacre scritture dell’Antico e Nuovo Testamento poiché il Signore lo rendeva sapiente. Diligentemente si recava nella santa Chiesa ad ascoltare le letture del santo Vangelo, quelle profetiche ed apostoliche leggeva e scrupolosamente interrogava i maestri della fede. Se qualcuno contestava [quegli insegnamenti], ciò diventava per lui occasione di maggiore approfondimento della propria conoscenza. Così si perfezionò nella dottrina che è donata da Cristo alla Santa Chiesa Cattolica. […]

A questo punto rinnegò la legge di Maometto e abbandonò il modo di pregare che aveva in patria, ed amò Cristo con tutto il suo cuore adeguandosi alle parole: ʻmi annunciarono il pensiero degli empi, che non era la tua legge’» (Sal 119, 85).

Icona moderna di Santo Abo

Dopo il battesimo, inizia un percorso che lo porta sino in Abcasia, un «cammino di tre mesi, viaggiando di giorno e di notte». Quando il principe d’Abcasia seppe che Abo era stato appena battezzato «egli e la sua gente ne gioirono assai» [2003: 223] Lui invece davanti agli abcasi ringrazia Dio per aver «trovato un paese pieno di fede in Cristo e dentro i suoi confini non si trovava alcun abitante senza fede» [2003: 224]

Il principe d’Abcasia offre al Santo di poter restare nel suo paese e non far ritorno a Tiflis, dove i saraceni lo potrebbero uccidere per la conversione al cristianesimo. Abo invece decide di tornare e dedicarsi alla predicazione:

«Allora non mi fermare, servo di Dio! […] Ora ti supplico, lasciami andare affinché il fatto che io sono cristiano sia apertamente comunicato a coloro che odiano Cristo […]: ʻné si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti’ (Mt 5, 15). ʻCosì risplenda la vostra luce davanti agli uomini’ (Mt 5, 16) Ed io ora perché dovrei nascondere la luce con cui il Cristo mi illuminò?» [2003: 203]

Il santo martire Abo Tbileli. Pubblicazione religiosa del 1899. In sfondo, la chiesa di Metekhi


4. Martirio di sant’Abo

Riportiamo ora ampie parti della traduzione in italiano operata dal Prof. Gaga Shurgaia, della terza parte del testo redatto da Ioane Sabanisdze completa (Martirio di Abo, edizione di Gaga Shurgaia in La spiritualità georgiana. Ioane Sabanisdze, Ed. Studium, Roma, 2003).

«Nel dominio di nostro Signore Gesù Cristo, nell’anno 846 della sua Passione e Resurrezione [nel 786], mentre sui cristiani regnava Costantino, figlio di Leone, nella grande città di Costantinopoli, e sui saraceni invece Mosé emiro al-muʿminīn, figlio di Mahdī, in Kartli era katholikos Samoel ed era principe reggente St’epanoz, figlio di Gurgen, mentre si erano compiuti 6389 anni dalla creazione, nel giorno sei del mese di gennaio, venerdì, festa della Teofania, siamo stati testimoni nella città di Tiflis del martirio e del combattimento glorioso del santo e beato martire Abo, che avvenne come [di] seguito [racconterò].
Prima che questo avvenisse, vennero ad arrestare il beato martire di Cristo e dopo averlo condotto dal giudice, che era l’emiro della città di Tiflis, lo gettarono nella prigione perché egli confessava il Cristo. Tuttavia, giorni dopo, St’epanoz, principe reggente di Kartli, intercedette per lui, facendolo rilasciare dalla prigione.»


I suoi avversari però si recano dal nuovo emiro che era arrivato poco prima a Tiflis:

«Gli dissero: «In questa città c’è un giovane saraceno, nato, cresciuto ed istruito nella fede che ci diede Maometto, nostro apostolo. Egli ora ignora la nostra fede e dichiarandosi cristiano gira liberamente nella città senza alcun timore, iniziando molti di noi al cristianesimo. Ordina allora di arrestarlo, di condurlo al castigo ed alle torture finché non professi la fede di Maometto, nostro apostolo; e se non [lo farà] sia ucciso, affinché non si moltiplichino quelli che lo imitano grazie alle sue parole».

Durante le invasioni musulmane, le icone e i tesori delle chiese della Georgia si salvarono nella valle inaccessibile della Svanetia, le cui piccole chiese medievali perciò nel corso dei secoli accumularono incredibili tesori. Queste icone sono dalle chiese di Ushguli. Sopra: La Madonna con Gesù e Santa Barbara, 9º secolo

L’emiro lo chiama davanti a lui, cercando di convincerlo ad abbandonare la sua fede. Abo invece definisce l’islam come: «creata dagli uomini, fatta di credenze, la cui saggezza viene dalle fiabe», e rimane fedele al cristianesimo.

«Mentre così lo accusavano, furono sentiti da alcuni cristiani che subito vennero da sant’Abo e gli dissero: «Ecco, ti stanno cercando per arrestarti, per castigarti e torturarti». E [cercavano di] convincerlo affinché si ritirasse e si nascondesse. Egli invece rispose loro: «Io sono pronto non soltanto alle torture, ma anche alla morte per Cristo». Ed uscì felice, girando per i quartieri [della città] senza alcuna paura. Vennero allora alcuni servi del giudice, catturarono il beato Abo e lo condussero al giudice.
Il giudice gli disse: «Che cosa sento dire di te? Saresti saraceno per generazione e stirpe ed avresti ora abbandonato la fede dei padri, facendoti traviare dai cristiani? Adesso [ritorna in te stesso] e prega nella fede in cui ti hanno educato i tuoi genitori!».
Il beato Abo invece, pieno della potenza di Cristo, così rispose al giudice emiro: «Hai detto bene, infatti sono saraceno di sangue, [generato saraceno] dal padre e dalla madre, fui [davvero] istruito nella fede di Maometto ed in essa sono vissuto fino a quando sono rimasto nell’ignoranza. Quando Dio si compiacque di me – scegliendomi tra fratelli e parenti e salvandomi per mezzo di Gesù Cristo, suo Figlio e mio Dio – e mi fece conoscere il bene, allora abbandonai quella fede che avevo prima, fede creata dagli uomini, fatta di credenze la cui saggezza viene dalle fiabe, iniziandomi invece alla vera fede della Santa Trinità donata da Gesù Cristo e nella quale sono battezzato. Adesso adoro Lui solo, perché Lui solo è Dio vero. Ora sono cristiano e non è una calunnia quello che dicono di me».
Gli disse il giudice: «Lascia codesta idea folle. E se ti fossi fatto cristiano a causa della tua povertà, ebbene io ti darò subito ancor più doni e ricchezze».
Gli disse il beato Abo: «L’oro e l’argento rimangano con te per la tua rovina! Io non cerco doni dagli uomini, poiché possiedo il dono di Cristo che è la corona della vita e della immarcescibile ricchezza eterna nei cieli».
Allora il giudice ordinò di legarlo mani e piedi con catene di ferro e in tal modo chiuderlo in prigione.
Ma il beato [Abo] ne era gioioso, ringraziava Dio e diceva: «Ti ringrazio, o Signore nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo, poiché mi hai ritenuto degno di essere giudicato e fatto prigioniero per il tuo santo nome».
Questo accadeva nel [giorno] ventisette del mese di dicembre, martedì, giorno della commemorazione dell’apostolo di Cristo, santo Stefano protodiacono, protomartire e principe di tutti i martiri.»

Icona dei quaranta martiri di Sebaste, 12º secolo

Le date hanno un potere simbolico nel martirio. Come Abo fu imprigionato il 27 dicembre, il giorno di Santo Stefano, il primo martire, così sarà martirizzato al fiume Mt’k’vari il 6 gennaio, lo stesso giorno in cui Gesù fu battezzato nel Giordano.

Nel frattempo il beato Abo era in prigione, dove digiunava e pregava salmodiando ininterrottamente giorno e notte, [riuscendo pure a] compiere opere di bene: aveva infatti venduto tutto ciò che possedeva, offrendo il ricavato a nutrimento degli affamati e dei poveri che erano incarcerati insieme a lui. […] Il beato era nella prigione da nove giorni, [trascorso] digiunando di giorno in giorno e vegliando di notte fino allo spuntare dell’alba, allorché nel nono giorno annunciò a tutti coloro che erano reclusi con lui, cristiani e non cristiani: «Domani avverrà che io lascerò questa mia carne (Fil 1, 23) e raggiungerò il mio Signore e Dio, Gesù Cristo». Disse ciò poiché Dio glielo aveva rivelato.

Allora si privò dei suoi vestiti, affinché li vendessero per comprare ceri e incenso, che fece poi donare a tutte le chiese della città perché li accendessero. Supplicò poi i sacerdoti di pregare per lui, affinché non gli mancasse la fede in Cristo e potesse dunque essere degno di meritare il martirio per Lui. Egli stesso, invece, nella notte della santa festa, prese in mano due grandi candele e ponendosi in piedi in mezzo alla prigione, rimase fermo, vegliando e senza sedersi mai fino all’alba, allorché terminò di recitare i salmi. Le candele bruciarono nelle sue mani, che erano incatenate col ferro insieme al collo, ed egli, stando in piedi, senza muoversi, diceva: «Pongo sempre innanzi a me il Signore, sia alla mia destra, perché io non vacilli» (Sal 16, 8), e le parole che seguono.

Appena spuntò il decimo giorno, la festa del battesimo del Salvatore, ossia il sei del mese di gennaio, che cadde di venerdì, il beato disse: «Questo è per me un grande giorno, poiché vedo la duplice vittoria del mio Signore, Gesù Cristo. Innanzitutto in questo giorno miracoloso Egli, depose le vesti, scese nel fiume Giordano per essere battezzato e con la sua potenza divina schiacciò le teste dei draghi nascosti nella profondità delle acque (Sal 74, 13-14). Così è lecito anche a me abbandonare ogni preoccupazione per la carne, che è la veste della mia anima, e immergermi in questa città come se mi trovassi nel’abisso del mare, ed essere battezzato con il mio stesso sangue, con il fuoco e con lo Spirito – come predicò Giovanni il Precursore (Mt 3, 11; Lc 3, 16). Mi immergerò nelle acque e acquisterò la luce perché oggi è il giorno della discesa dello Spirito Santo sulle acque del fiume Giordano, in cui vengono battezzati i fedeli di Cristo.»

Deesis, 13º secolo

Anche la sua condanna davanti al giudice e il suo martirio segue le stazioni di Cristo:

«Allora chiese dell’acqua, si lavò la faccia, si unse i capo e disse: «Una volta io stesso preparavo gli unguenti, e sapevo predisporre con perizia varie specie di olio profumato; ed oggi l’olio mi serve per la sepoltura. D’ora in poi non mi ungerò più con l’olio che disperde i cattivi odori, ma come imparai dal saggio Salomone nel Cantico dei cantici: correrò a te inebriato dalla fragranza dei tuoi profumi (Ct 1, 3). Cristo, che mi riempisti con l’indistruttibile profumo della tua fede e del tuo amore, tu sai, Signore, che ti ho amato più di me stesso».
Avendo detto queste cose, inviò qualcuno alla santa Chiesa perché gli fosse portato il santo sacramento, la carne ed il sangue di Cristo – era l’ora terza del giorno della grande festa.

Lo condussero fuori così com’era: con le mani e i piedi incatenati con i ferri; e mentre lo conducevano per le strade della città i cristiani e coloro che lo conoscevano, vedendolo, addolorati versavano lacrime su di lui. Ma il santo Abo invece disse loro: «Non piangete per me ma invece gioite, poiché io sto per andare dal mio Signore. Accompagnatemi con le preghiere e la pace del Signore vi difenderà».

Così raggiunse la corte dell’emiro giudice. Appena arrivato, con audacia fece il segno della croce alla porta e su se stesso. Lo condussero dinanzi al giudice, che gli si rivolse così: «Allora, giovane, che cosa hai pensato di fare di te stesso?»
Il santo martire allora si riempì di Spirito Santo e gli rispose: «Ho pensato, sono cristiano!»
Disse il giudice: «Allora, non hai lasciato la tua pazzia e la tua ignoranza?»
Il beato Abo gli rispose: «Se fossi stato nell’ignoranza e nella stoltezza, non sarei stato degno di seguire Cristo».
Gli fece il giudice: «Non hai capito che codeste tue parole saranno causa della tua morte?»
Gli rispose sant’Abo: «Se morirò, io credo che vivrò in Cristo. Ma tu piuttosto, perché indugi? Fammi ciò che hai intenzione di fare, poiché io, come il muro al quale sei appoggiato, non sento codeste tue parole malvagie, dal momento che la mia mente è con Cristo nel cielo.»
Gli domandò il giudice: «Quali e quanto grandi dolcezze hai avuto dal tuo Cristo che non ha compassione neanche di te stesso sul punto di morire?»
Gli disse sant’Abo: «Se vuoi conoscere la Sua dolcezza, credi il Lui, fatti battezzare in Lui. Soltanto allora conoscerai la Sua dolcezza».

A questo punto l’emiro si adirò ed ordinò di condurlo fuori e di tagliargli la testa. I servi lo condussero fuori, nel cortile del palazzo, e gli tolsero i ferri dai piedi e dalle mani. Il beato si levò rapidamente le vesti che indossava, e una volta svestito si fece il segno della croce sulla faccia e sul petto, dicendo: «Ti rendo grazie e ti benedico, Santa Trinità, per avermi reso degno di entrare nel novero dei tuoi santi martiri!»
Detti questo intrecciò le mani dietro la schiena, come se fosse[ro le braccia del]la croce, e, con il volto illuminato di gioia e l’animo audace, invocò Cristo, chinando il capo dinanzi alla spada. Per tre volte brandirono la spada, sperando di separarlo da Cristo con il terrore della morte. Ma il santo martire invece sogguardando calmo e silenzioso la spada, affidava il suo spirito a Cristo.»


Icona d’oro del Salvatore, 11º secolo

Come gli ebrei chiesero soldati a Pilato per custodire il corpo di Cristo, che i suoi discepoli non lo portassero via e diffondessero la notizia della sua resurrezione, così i musulmani chiesero all’emiro che il corpo di santo Abo venisse bruciato, perché non diventasse una reliquia da poter venerare per i cristiani. Le ceneri verranno disperse nel fiume.

Quando coloro che combattevano Cristo, gli accusatori del santo martire, ebbero visto che il beato era [morto] fermamente unito a Cristo, avendo combattuto la buona battaglia ed avendo sconfitto con la fede e la pazienza il loro vaneggiamento, presi ancor di più dal livore, andarono dal tiranno e gli dissero: «Noi sappiamo che è costume dei cristiani fare questo: se qualcuno si fa uccidere per il loro Cristo rapiscono il suo corpo, lo seppelliscono con venerazione e [poi] con la menzogna vogliono far credere al miracolo, diffondendo nel popolo la notizia [che il corpo è] capace di operare guarigioni, e così dividono tra di loro le sue vesti, i capelli della sua testa o le ossa. […] Ordina perciò che ci venga consegnato il suo corpo, affinché lo prendiamo per poterlo bruciare col fuoco e disperdere al vento [le ceneri], eliminando così l’inganno dei cristiani. E così tutti, vedendo questo, siano presi dalla paura, e magari alcuni di loro si convertano a noi e d’altro canto i nostri abbiano sempre paura e non seguano più l’insegnamento dei cristiani».
A questo punto, il giudice disse: «Portatelo dove volete e fatene ciò che volete!»
Allora uscirono, sollevarono da terra il suo corpo prezioso e lo posero assieme ai suoi vestiti dentro un sacco, poi presero pure la terra col sangue versato dal giusto, raccogliendola in un recipiente così da non lasciare nulla. Posero il [corpo del] santo su un carro, come avvenne per quaranta audaci santi, anche perché il luogo dove tagliarono la testa al santo martire si trovava vicino alla porta della santa chiesa dedicata ai quaranta santi, ed era giusto che lui seguisse la stessa sorte dei famosi quaranta santi.
Portarono il corpo del santo fuori della città e salirono a un luogo che si chiama sagodebeli, [ossia luogo della trenodia] poiché vi è il cimitero degli abitanti della città. Arrivati, levarono il cadavere dal carro e lo posero sulla terra. Posero poi del legname, della paglia e della nafta, ne versarono sul santo ed accesero il fuoco fino a che non bruciarono le carni del santo martire.
Questo avvenne in un luogo che si trova ad est della fortezza [che domina] la città di nome sadilego [ossia della prigione]; su una rupe, lungo la quale, ad est della città, scorre un grande fiume di nome Mt’k’vari.

A nessun cristiano permisero di raggiungere quel luogo finché non fossero completamente bruciate le carni del santo martire, e le ossa – non riuscendo a bruciarle – furono raccolte dentro una pelle di pecora che fu chiusa saldamente coi lacci e gettata nel grande fiume sotto il ponte della città, sul quale è eretta una preziosa croce. E l’acqua del fiume accolse in sé le sue sante ossa come in una veste, e l’abisso del fiume fu sepolcro al santo martire, affinché nessuno potesse avvicinarglisi con irriverenza.


Icona dell’Arcangelo Michele, 13º secolo

Tuttavia, nella notte una stella brilla sopra il luogo del martirio, come la notte successiva sopra il luogo, dove il fiume abbracciò le ceneri del santo:

Quando calò la notte su quei luoghi – era l’ora prima di notte – Dio fece discendere una stella, brillante come una lampada di fuoco, che stette ferma sopra il luogo dove avevano bruciato il [corpo del] beato martire di Cristo. E la stella stette lì in alto fino all’ora terza ed oltre di notte, emanando uno splendore non come fuoco di questa terra, ma come tremenda saetta di fulmine.
Tutti gli abitanti videro ciò: dal giudice al popolo tutto, cristiani, saraceni e viandanti venuti da fuori.

La notte seguente le acque [del fiume] irradiarono una luce stupefacente, ancora più luminosa. [Mentre alcuni] avevano considerato il fuoco celeste, che stava sospeso tra la terra e l’aria, un miraggio, volendo [così] misconoscere quella meraviglia; [ora invece tutti vedevano che] le acque non riuscivano a spegnere [quella luce], neppure i numerosi gorghi violenti nella profondità dell’abisso riuscivano ad estinguerla.
Dove avevano gettato le ossa del beato martire, santificate da Dio, sotto il ponte, là apparve una luce splendida con forma di colonna, simili a fulmini che stanno fermi. [Di questa luce] erano illuminati i dintorni del fiume: la rocca, il precipizio ed il ponte, dalla terra al cielo. [Tutto ciò fu] alla vista di tutta la moltitudine della città, affinché tutti credessero che egli era veramente martire di Gesù Cristo, Figlio di Dio, [affinché] capissero tutti, credenti in Cristo e non credenti, quanto sia vera la parola detta dal Signore: «Se uno mi serve sarà onorato dal Padre mio che è nei cieli» (Gv 12, 26)


Qui, ai piedi della roccia Metekhi fu costruita la piccola chiesa, dove i cristiani georgiani venerano la memoria di Santo Abo da milleduecento anni. La cappella, che fu distrutta dalle autorità sovietiche negli anni ’50, oggi si vede nella forma ricostruita, risalente agli anni ’90.

La piccola chiesa di Santo Abo sotto la rocca di Metekhi a sinistra, al piede del ponte, sulla veduta di N. G. Černetsov (1832). All’altro piede del ponte, la moschea sciita. Di tutti questi edifici quasi niente è rimasto dopo la distruzione degli anni ’50.

1 commento:

  1. Jacopo, hai fatto un lavoro di grande approfondimento.Permettemi che lo legga con tranquillità. Poi se sei d'accordo lo posso anche far girare. Ciao e grazie degli approfondimenti.

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