venerdì 3 aprile 2015

La terra delle canzoni dimenticate


Cavalieri in paesaggi da sogno, uomini che conducono un toro al cancello della chiesa, con candele accese sulle corna, ragazze cantando canzoni antiche con sguardo introspettivo. E torri ovunque, in gruppi o da sole, torre chiuse e scure. Aaron Huey sta tornando da sedici anni a Svaneti, da tredici anni sta fotografando questa regione. Dieci delle sue foto sono state pubblicate nel numero di ottobre 2014 di National Geographic come illustrazioni al bellissimo saggio di Brook Larmer su Svaneti, ma nel suo portafoglio ha cinque volte di più.


Chanters of St. Panteleimon: Aslanuri Mravaljmier. Canzone di saluto

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«Nel corso della storia gli eserciti di alcuni tra i più potenti imperi – arabi, mongoli, persiani, ottomani – hanno invaso la Georgia, terra di confine tra Europa e Asia. Nessuno però è riuscito a conquistare quel fazzoletto di terra nascosto tra le gole del Caucaso che costituisce la patria degli Svan, almeno fino all’arrivo dei russi a metà dell’Ottocento. Ed è proprio attorno a questo isolamento che la Svanezia ha forgiato la propria identità culturale e storica. Nei momenti di pericolo, i georgiani delle pianure sottostanti portavano i loro oggetti più preziosi – icone, gioielli, manoscritti – al sicuro nelle piccole chiese di montagna e nelle torri della Svanezia, che divenne così depositaria dell’antica cultura georgiana.

Ma nella roccaforte inespugnabile delle loro montagne gli abitanti della Svanezia hanno anche saputo preservare la loro cultura, che è ancora più antica. Nel I secolo a.C. gli Svan, che secondo alcuni erano discendenti di schiavi sumeri, erano considerati spietati guerrieri dal geografo greco Strabone. Attorno al VI secolo, quando arrivò il cristianesimo, avevano già una cultura radicata, con una lingua propria, articolate musiche tradizionali e complessi codici in materia di cavalleria, giustizia comunitaria e vendette.

Ancora oggi gli abitanti dell’Alta Svanezia, dove si trovano alcuni tra i più elevati e isolati villaggi del Caucaso, osservano fedelmente le tradizioni nel canto, nel lutto, nelle feste tradizionali e nella strenua difesa dell’onore familiare. ʻLa Svanezia è un museo etnografico a cielo aperto’, dice l’accademico norvegese Richard Bærug, che si sta impegnando per salvare la lingua svan, un idioma che si tramanda in gran parte oralmente e che a detta di molti studiosi sarebbe più antico del georgiano. ʻNon esiste altro luogo al mondo’, aggiunge il ricercatore, ʻche abbia mantenuto in vita i costumi e i rituali del Medio Evo europeo.’»



Zedashe Ensemble: Raidio. Canzone per il sacrificio del toro


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«Preso dal lavoro quotidiano, con indosso il tradizionale berretto di lana, Kaldani incarna sia la continuità della cultura svan che i pericoli che la minacciano. È tra i pochi che ancora parlano correntemente la lingua svan, ed è anche uno degli ultimi mediatori, figure che da secoli vengono chiamate a dirimere le controversie tra gli abitanti dei villaggi, dai furtarelli fino alle faide che si trascinano per generazioni. Oggi questa tradizione non è più così forte, ma nell’antica società svan il numero degli omicidi commessi in nome dell’onore familiare era così alto che, secondo alcuni studiosi, le torri non servivano solo a difendersi dagli invasori e dalle valanghe, ma anche dai compaesani stessi.

Nel caos seguito al tracollo dell’Unione Sovietica le faide riemersero con rinnovato vigore. ʻNon trovavo mai un attimo di riposo’, ricorda Kaldani. A volte, dopo aver negoziato un ʻriscatto di sangue’ (in genere 20 vacche a titolo di risarcimento per un omicidio), il mediatore convocava le famiglie coinvolte in una chiesa per pronunciare un giuramento e celebrare un battesimo reciproco. Grazie a questo rituale, assicura Kaldani, ʻle famiglie si asterranno dalla vendetta per 12 generazioni.’»



Mzetamze Ensemble: Iavnana. Canzone di guarigione


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«Il canto d’amore e di vendetta inizia dolcemente, con una linea melodica antica, affidata a una voce solista. Poi attacca il controcanto, con le altre voci che si sovrappongono in una fitta progressione di armonie, in un crescendo incalzante, fino a sfociare su un’unica nota di risonante chiarezza. Il complesso musicale si è riunito in uno stanzone privo di riscaldamento affacciato sulla piazza principale di Mestia. Questi canti, tra i più antichi esempi di musica polifonica, risalgono a diversi secoli prima dell’avvento del cristianesimo in Georgia.

Finita la prova i giovani musicisti escono alla spicciolata sulla piazza, chiacchierando tra loro, ridendo, lanciandosi baci in segno di saluto e smanettando sui cellulari. ʻSiamo tutti su Facebook, ma non per questo dimentichiamo il nostro patrimonio culturale’, dice la quattordicenne Mariam Arghvliani, che nel complesso giovanlie Lagusheda suona tre antichi strumenti a corde, tra cui un’arpa in legno a forma di L originaria della Svanezia. Eppure il suo talento avrebbe rischiato di svanire, assieme alle tradizioni musicali della sua terra, senza il programma giovanile avviato 13 anni fa da padre Giorgi Chartolani, crociato della cultura svan.

Seduto su un muretto del cimitero della sua chiesa, padre Giorgi ricorda il tumultuoso periodo post-sovietico, con i gravi rischi che ha comportato per una cultura già provata da quasi 70 anni di oppressione comunista. ʻFu un periodo di grande brutalità’, dice accarezzandosi la lunga barba e accennando ai volti giovanili raffigurati su numerose lapidi, tra cui molti ragazzi uccisi nelle faide. ʻI villaggi si svuotavano, la nostra cultura rischiava di scomparire’, dice. ʻSi doveva fare qualcosa.’ Grazie al suo programma, ʻuna luce nell’oscurità’, come lo definisce, centinaia di giovani studenti come Mariam hanno potuto apprendere le musiche e le danze tradizionali della loro terra.»


Il complesso Lagusheda a Stary Sącz, Polonia, il 1° giugno 2014

Nel video composto dal National Geographic, Aaron Huey parla di come è arrivato a Svaneti come studente, zaino in spalla, come è rimasto con una famiglia che l’ha «adottato», e come si innamorò di questa terra e questa gente, che lo ha inabilitato di rendere immagini così intime di loro.


«La prima volta che sono andato a Svaneti, non avevo intenzione di andare a Svaneti. Non ero ancora un fotografo, ero un backpacker. Ma questa era la storia che mi ha fatto un fotografo. Ho incontrato un linguista tedesco che mi ha parlato di un luogo dove le persone ancora parlavano una lingua che non era mai stata scritta, e che era circondato da vette alte 4-5 mila metri. Il linguista tedesco mi ha disegnato una mappa su un tovagliolo, che ho copiato nel mio diario, e sono partito il giorno dopo. Durante il viaggio in autobus in montagna dopo due ore una donna si girò e mi ha chiesto: ʻDove vai?’ Le ho detto che campeggio dove l’autobus si ferma alla fine della strada. Lei mi guardò e mi disse: ʻNo, figlio mio. Per favore, non farlo.’ E mi ha preso con lei, e mi ha portato a un matrimonio.

Queste storie non trattano solo di fare delle belle foto. Noi raccontiamo le storie di un intero popolo. Quindi, se raccontiamo bene la storia, conserviamo queste cose. È questo il nostro lavoro. Conservarre questa poesia. Ci sono tante persone che non hanno mai sentito parlare di Svanetia, questa regione della Georgia, e questo popolo, i svan, e chissà questo sia l’unica cosa che mai leggeranno su questo popolo. E io penso che è questo che ora cerco in tutti i miei progetti.”


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