lunedì 6 aprile 2015

La lunga strada per Ushguli


Risvegliandoci prima dell’alba nella pensione a Mestia vedo che ha nevicato durante la notte. Nell’aria immobile e nella luce nebbiosa ogni tetto, recinto e albero, fino al più piccolo ramoscello, è coperto con un folgorante e fragile rivestimento bianco. I fili elettrici che si inarcano da un polo all’altro sono diventati grossi nastri bianchi, con i fiocchi di neve che si sono depositati con lo spessore di un palmo, e il cui dentello sarà distrutta dal primo vento della mattina.

Partiamo a Ushguli in un furgone a trazione integrale, guidato dal padrone della nostra pensione. Le strade della città sono quasi tutte vuote a quest’ora dell’alba. La luce dei fari si rispecchia nelle pozze d’acqua che si sono formate nella strada, coprendo l’asfalto con un’abbagliante luce rosata. Lo brontolamento del motore del furgone spinge i cani pastori in una frenesia ringhiosa, che ci scacciano in campagna, abbaiando ai nostri pneumatici posteriori fino a quando sono sicuri che non torniamo più indietro.


Lasciando la città, continuiamo per una strada stretta e coperta di neve, che di tanto in tanto si dissolve in scure pozze di fango. Il sentiero tortuoso che segue la vallata del fiume Inguri è indicato solo dalle traccie delle macchine, di volta in volta rotte da torrenti casuali dell’acqua sciolta. Queste fosse e dossi a volte solo rallentano il progresso, e a volte ci fermano, mentre il conducente esamina la natura dell’ostacolo e il miglior metodo di superarlo. Poi, manovrando abilmente con la marcia e il volante, tragitta la macchina: una scossa, un dondolio, e andiamo avanti. In questo modo aspettiamo percorrere i 40 chilometri fino a Ushguli in tre o quattro ore. A volte, in punti specialmente brutti dobbiamo scendere e spingere la macchina, le nostre gambe si immergono nella neve bagnata, e i nostri muscoli si sforzano per aiutare ai pneumatici, che girano senza resistenza, come galassie di gomma in un universo di ghiaccio, finché addentrano in una superficie fresca e trovano trazione.


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Dopo una curva si vede davanti a noi un piccolo torrente che attraversa la strada, scavando un solco profondo nella superficie, e scorrendo intorno ad alcune pietre grezze. La macchina avanza con attenzione, l’abbiamo già quasi passato, e ora il conducente preme sul gas per saltare dal solco. Ma la ruota anteriore improvvisamente scivola dalla pietra, e dal carrello si sente un suono inquietante, lo scricchiolio dell’acciaio contro la pietra. Avanziamo ancora un paio di metri, e il motore si ferma. L’autista tenta ripetutamente di riavviarlo, ma in vano. Colpito dalla pietra, il tubo del carburante si è pressato

Telefona al prossimo villaggio, e in pochi minuti un altro veicolo arriva con tre uomini, seguiti da un quarto sopra un cavallo marrone. Dopo molta discussione e scosse di testa sopra il cofano aperto, il conducente finalmente striscia sotto la macchina per ispezionare il danno.


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Un’altra chiamata, stavolta al nipote del conducente a Mestia, che venga e ci porti a Ushguli. Nel frattempo possiamo ammirare lo spettacolo del nostro veicolo rotto essere trainato da quattro buoi per la strada di montagna al prossimo villaggio, Kala, dove incontreremo il secondo autista.

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Camminiamo davanti ai buoi. Passiamo davanti a alcune case abbandonate, relitti sbadiglianti con persiane di traverso e intonaco fatiscente. Gli abitanti seguirono il richiamo della vita moderna, e si scesero nelle valli in cerca di migliori condizioni di vita. Non è difficile immaginare come può essere l’isolamento dell’inverno, la prigionia della neve in un luogo così inaccessibile. Nel muro di una casa abbandonata qualcuno ha graffiato con la mano esperta, per accomiatarsi, il volto di Stalin.

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Fra poco diciamo addio al primo conducente, e saliamo sulla jeep del secondo. Come se un nuovo capitolo si cominciasse in quest’avventura, dopo alcune curve si cambia anche il carattere della strada, diventa ancora più stretta, più incompiuta, più insidiosa. È meno calpestata che fino allora, ed è limitata da una scogliera grezza a sinistra, e una profondità vertiginosa a destra. Quando di tanto in tanto esce il sole dal dietro le spesse nuvole, un panorama ultraterreno si apre davanti a noi: montagne coperte dal sudario spettrale di neve, irte di alberi neri, contro il cielo del blu più profondo.




Arriviamo nel tardo pomeriggio a Ushguli, nell’alta valle, irraggiungibile per qualsiasi strada fino agli anni 1930, e apparentemente tuttora fuori del flusso del tempo. Il villaggio triplo è circondata da dolci colline con prati ora sotto neve, che gradualmente si avanzano verso le vette che fiancheggiano la valle. Abbiamo appena un’ora fino al buio per scoprire le torri fortificate degli Svan ed esplorare la struttura di questo villaggio straordinario. Patrimonio dell’Umanità, il luogo è l’insediamento più alto dell’Europa.


Passeggiamo fra le strutture millenarie – alcune del secolo VIII – del sobborgo inferiore, a volte incontrando una mucca magra o un cavallo triste, ma nessun uomo. Girelliamo nel labirinto di mura erette di pietre piatte e grigie irregolari, che ospitano licheni arancione e ciuffi di erbe secchi. Il silenzio è interrotto solo di tanto in tanto dal canto di un gallo, l’abbaio di un cane, o il muggito scontento di una mucca. Un gruppo di cani pastore semi-selvaggi, di aspetto affamato scopre la nostra presenza, e noi dobbiamo ritirarsi, alzando i pali strappati dal recinto, mentre cerchiamo di fare quanto più foto nella luce calente.


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Tornando alla strada principale, incontriamo il conducente che ci sta aspettando sulla piccola piazza centrale in mezzo ai tre sobborghi del villaggio. Abbiamo freddo e fame, essendo per noi la colazione l’ultimo pasto che abbiamo preso in fretta in quel giorno. Lui ci propone di andare da una casa di conoscenti, e noi percorriamo il sentiero rozzamente coperto di pietre che sarebbe una strada del villaggio. Lungo la strada incontriamo un piccolo gruppo di bambini che vanno a casa dalla scuola, accompagnati da un grande cane pastore caucasico. Ci salutano con orgoglio in inglese. Rispondiamo al saluto, congratulandoci, e loro con un sorriso corrono giù verso la parte bassa del villaggio.

Arriviamo alla casa, una donna ci apre la porta, avendoci prima ispezionato dalla finestra. Ci invita nella cucina calda, dove sta già preparando il khachapuri per la cena della famiglia. Ci offre posti attorno alla tavola.


Suo suocero di settanta anni entra nella cucina al suono degli ospiti («L’ospite è un dono di Dio», dice il vecchio proverbio georgiano) con una bottiglia di brandy fatto a casa. Ci racconta che nell’epoca sovietica era pilota militare a Kiev, oggi insegna russo ai bambini della scuola locale. Durante la cena dice brindisi tre volte, secondo il costume georgiano, alla famiglia, all’amicizia, e che non ci sia la guerra a Donetsk, nell’Abkhazia e nell’Ossezia del Sud.


A tarda notte incontriamo di nuovo il nostro primo conducente e padrone di casa nella pensione di Mestia. Le donne della casa ci servono una cena veramente deliziosa, accompagnata da vino bianco raffreddato. Fra i bicchieri svuotate, e i brindisi inevitabili, ma affettuosi ci dice con orgoglio: «Che fortuna che c’era questo incidente. Così almeno potete vedere come mi rispettano nei dintorni, e come sono disponibili ad aiutarmi quando mi serve.»

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