martedì 31 marzo 2015

Immagini armene, 1977


Non dobbiamo presentare Gábor Illés ai nostri lettori. Coloro che viaggiano con noi, lo conoscono bene dalle tours di río Wang, e coloro che solo ci leggono, dalle sue fantastiche foto, pubblicate regolarment nelle relazioni «Insieme a…» seguendo i nostri viaggi (raccolte qui). Questo è il suo primo post independente qui in río Wang, il che dimostra, che trentotto anni fa era altrettanto bravo fotografo come oggi. Immagini storiche da un’ex provincia di un impero scomparso.

In un post del 2013 (Armenia – stops, movement, colors), Catherine ha dipinto un quadro piuttosto deprimente dello stato attuale delle cose nell’Armenia. Soprattutto delle «città delle valli», sacrificate per l’industrializzazione nell’Ottocento, e definitivamente emarginate dal comunismo e stalinismo nel Novecento. Le contrasta con le «colline che dominano le valli», dove i villaggi e le chiese vivevano una volta, e «hanno aperto le loro porte al passante, al viaggiatore, al viandante».

E nonostante questo, per avere una parola finale positiva, chiude il suo post con la foto (da circa 1910) di una giovane donna armena in abito di festa, in un fresco ambiente di primavera, con questa frase: «La primavera certamente verrà presto.»

Io non posso discutere con lei.

Né con la diagnosi, né con il fatto che sempre c’è speranza.

Sono grato al destino, che nel 1977 ho potuto trascorrere un lungo mese nell’Armenia. L’occasione è stata offerta da un campo di scambi giovanili, comune a quell’epoca tra i paesi del blocco socialista. Finora sono riuscito a digitalizzare la maggior parte delle trecento diapositive a colori scattate allora, e le affido con grande piacere al padrone di questo blog per comporne un fotopost.

Mi pare che le mie foto, scattate 38 anni fa, sostengono il post di Catherine. La stragrande maggioranza di loro rappresentano monasteri che stanno da secoli o da più di un migliaio di anni nell’altopiano, le croci di pietra incredibilmente elaborate, e il bellissimo paesaggio armeno. E non è un caso, che quasi nessuna città (nessuna città moderna) compare in esse. O quando sì, è piuttosto per il contrasto (come un esempio deterrente).

Nessuno di noi aveva alcun piano per cosa vedere in quel paese. A quel tempo, sappiamo bene, non c’era internet o Lonely Planet. A dire la verità, non avremmo neanche dovuto aspettare di poter viaggiare. Eravamo giovani, quasi senza soldi, e in termini delle leggi sovietiche di quei tempi non avremmo dovuto lasciare la città senza un permesso speciale. Ma si è scoperto che l’autostop lavora molto bene, e che non vi era praticamente nessun controllo. Da Sevan (la nostra città) e Yerevan potevamo ragiungere qualsiasi punto del paese, anzi Tbilisi nella Georgia!

Per quanto riguardava gli obiettivi, ci siamo affidati – a parte del nostro istinto e, naturalmente, la buona fortuna – alle cartoline acquistate lì, nelle quali fantastiche chiese storiche ci hanno attirato verseo sempre nuove avventure. Nel corso del tempo, un poster dal titolo «Illustrated Guide-Map of Historical Architectural Monuments of Soviet Armenia» è diventato la nostra Bibbia, che grosso modo ha evidenziato la posizione approssimativa dei monumenti più importanti.

Per quanto riguarda le foto, avevo solo un 50mm kit obiettivo alla mia Practica Super TL, e la materia prima era limitata a 7 o 8 rotoli di pellicola diapositiva Orwo (Germania dell’Est).

Molte foto richiedebbero naturalmente una storia, ma ora lasciamo che le immagini parlino da sole.

Gábor
Le vette del Caucaso dall’aereo Kiev-Yerevan

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Attraverso le montagne a nord di Sevan

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Hovhannavank (vedi anche qui e qui)

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Paesaggio vicino a Geghard

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Mappa dei monasteri armeni con testo armeno e inglese
Sotto: I monasteri fotografati sulla mappa moderna


sabato 28 marzo 2015

Felicità


«Prima di morire voglio…»

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venerdì 27 marzo 2015

Segni


Tbilisi è una città che si trova sull’incrocio di culture, tra l’Occidente e l’Oriente, e forse va anche detto, tra Nord e Sud. I suoi vicini potenti da molto tempo erano avidi di averla, per secoli cercavano di impuntarsi qui. Come risultato, Tbilisi era assediata, distrutta e ricostruita più volte nel corso della sua storia.

Una passeggiata attraverso le parti centrali della città rivela alcune prove di questo, ma la maggioranza degli edifici – con l’eccezione di alcuni storici, soprattutto le chiese – sono relativamente nuovi, costruiti dopo la fine dell’Ottocento. La struttura più suggestiva ed evocativa della città è forse la rete di stradine che attraversano quartieri in declino, dove le riparazioni, se ci si bada, hanno una qualità decisamente improvvisata.

Questo atteggiamento quasi casuale si riflette anche nelle pareti degli edifici che adornano questa ragnatela di vicoli e stradine. Esse ci sorprendono non solo per l’abbondanza dei loro segni scritti a mano, ma anche per il modo come alludono, in forma di scorcio, alla storia profondamente stratificata e multietnica di questa vecchia città. Scritture, graffiature e segnali in almeno tre alfabeti e ancor più lingue accompagnano il passante in qualsiasi delle strade, dove gli sviluppatori di proprietà non hanno ancora preso piede.

Sembra una cosa delicata, quasi eterea, troppo fragile per credere che esisterà a lungo. A ogni angolo si aspetta che i fantasmi escono dall’ombra. Ma Tbilisi si sta sviluppando rapidamente, e per quanto tempo questi quartieri pittorici e ombrosi esisteranno, con i loro luoghi scuri e romantici, dove vecchie persone vestite in nero salgono lentamente sulle stradine sterrate, ragazzi giocano nella polvere, e gatti bagnano pigramente al sole, ciascuno se lo può immaginare.


Ensemble Soinari: Nobody refused. Dal CD Idjassi (2005)


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giovedì 26 marzo 2015

L’Iran armeno: da Tabriz a Jolfa


Earlier:
Armenian monasteries in Iran
Armenian cemetery in Julfa
Sono arrivato a Tabriz nel tardo pomeriggio. Vicino alla Moschea Blu ho incontrato la ragazza che doveva essere mio ospite per la settimana. Avvolta nel suo abito nero islamico, era francofona, vivace, desiderosa di discussione e di conoscenza. Insieme a lei e con suo amico, un adolescente capriccioso, abbiamo percorso Tabriz nel tramonto. Non so già come si è venuti a parlare degli armeni di Tabriz: sono cristiani, sicuramente mi interessano. Sì, sono molti, no, lei non li conosce, sì, hanno scuole e luoghi di comunità, e persino chiese. Chissà, forse si dovrebbe imparare armeno a Tabriz.

Le chiese.

È divenuta entusiasta. Sì, ci sono chiese, ma lei non sa esattamente, dove. No, non è mai stata lì, non sa neanche com’è una chiesa, e pensava che come musulmana era anche proibita di entrare una chiesa. Tuttavia, dice suo amico, tale divieto non si applica a me… ma a quel punto era già buio. Hanno interrogato i commercianti della zona. Sì, la chiesa deve essere nascosta lì, in quel blocco di case. Abbiamo dovuto percorrere molti vicoli, poi un vicolo cieco, e ci eravamo. Un cancello, un citofono, una lunga discussione. Il custode che ci apre il cancello dà un’occhiata alla ragazza avvolta nel suo chador, e la lascia dentro prima: «chi ti potrebbe vedere»? Edifici nel cortile, con le finestre chiuse, lui deve prendere la catena giù dalla porta – la chiesa è aperta ai fedeli solo a Natale e Pasqua. È una chiesa nuova, vuota e brutta, dove nulla ricorda la memoria della visita di Marco Polo nel 13° secolo, ma c’è il custode che ci racconta, l’eccitazione che monta, le domande, le mani che raggiungono fuori e si scuotono, i ringraziamenti. E subito capisco che il giovane poliglotta con noi, che in precedenza faceva finta di essere un turista parlando italiano a me, ha appena chiesto in farsi, se potesse essere consentito di imparare armeno. «Sì», risponde il custode, e poi esita, perché, dice, i corsi sono anche lezioni di religione. Tuttavia, dà un numero di telefono e nomi.

Due o tre giorni dopo, sedendomi su una pila di tappeti nel bazar, appare il ragazzo, e mi sussurra, che ha chiamato, ha incontrato qualcuno, può seguire il corso, tutto solo, in segreto e senza costrizioni.

E che quella mattina aveva già la sua prima lezione in armeno. L’alfabeto.

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Quando la ragazza racconta a sua madre, com’è andata con me di notte per visitare la chiesa armena nascosta in profondità nel labirinto di strade, in un cortile privato dietro alte mura cieche, e come il custode ci spiegò gli affreschi, i quattro evangelisti, Cristo sulla croce nel coro, le lapidi con i loro lunghi epitaffi sulle pareti laterali, e come noi tre parlavamo con il vecchio custode nella penombra della chiesa, sua madre le ha calorosamente congratulato.

Poi siamo andati anche con suo padre a visitare altre chiese armene, perse tra le montagne, lontano dagli occhi dei passanti. Anche lui voleva vedere una chiesa.

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Da Tabriz abbiamo viaggiato fino a Jolfa, al confine con Nakhichevan, l’enclave dell’Azerbaigian tra l’Armenia e l’Iran. Dall’altra parte del fiume Araz – l’antico Araxes –, un paesaggio nudo, terra rossa, e al centro, una montagna azzurra, come un cono. Questo è Ilandag, il Monte Serpente, un’enorme zanna blu che domina il paesaggio di Nakhichevan. Probabilmente un vulcano, di cui si dice che fu colpito dall’Arca di Noè, mentre essa nuotava nelle acque alluvionali. Si vede da lontano. Non siamo entrati in Nakhichevan, l’abbiamo ammirato dalla banca iraniana dell’Araz, il fiume di confine. Dall’altro lato, ai piedi delle scogliere rosse, caserme e torri di guardia.



E altre torri di guardia lungo tutto il confine, e cannoni antiaerei, e soldati polverosi e non rasati, annoiati nelle loro fortezze, dimenticati in questo e quel lato dell’Araz. Ad un certo punto siamo fermati a fotografare il paesaggio al di là del fiume, le montagne rosse e marrone e rosa e bianco lacere, e nella lontananza l’Ilandag. Una voce ci ha chiamato da un bastione piccolo, quasi direttamente dalla riva dell’Araz, «vietato», disse la voce. No foto allora, così siamo seduti nella macchina di nuovo, avanzato un centinaio di metri, e dopo la curva fermati di nuovo. L’angolo era meno buono, ma nessun soldato in vista. Più avanti, ci hanno fermato. I due soldati erano giovani e divertenti. Non si può andare avanti, dicono, c’è un’inquinamento chimico. Impossibile, veramente pericoloso. Sepideh e suo padre cercavano di convincerli: siamo arrivati fino a qui da tanto lontano (soprattutto me), tutto per niente, sarebbe una vergogna. I soldati si piegano per vedermi, e suggeriscono che andiamo a vedere il loro superiore. Partiamo. Una strada sterrata, un cubo di cemento circondato da un filo spinato sotto un sole cocente. Sotto una tamerice, un cane giallo mi guarda senza muoversi. Sullo sfondo, l’Araz, l’acqua verde in movimento, montagne rosse, e l’Ilandag grigio-blu. Aria soffocante, luce accecante, calore. Non ancora il terribile caldo del deserto, quello verrà più tardi, ma in quel momento sembrava essere il calore più caldo che avrei potuto sopportare.

Il superiore esce dal cubo di cemento, tira indietro il recinto di filo spinato, e viene verso di noi. Una smorfia stanca sul suo volto giovane, i suoi occhi mi guardano di traverso. Un bel ragazzo biondo, annoiato nel suo posto di guardia. Ascolta la richiesta, si stringe nelle spalle, e tira fuori una penna dalla tasca. Disegna un passaggio in arabeschi raffinati nel palmo della mano della guida, direttamente sulla pelle. Passiamo il blocco stradale. A poche centinaia di metri, stanno riasfaltando la strada – ecco, deve essere questo l’inquinamento chimico.

Oltre quello, la strada continua tortuosa tra le scogliere, si arrampica, scende per un pendio ripido, con il fiume verde molto al di sotto. Le scogliere sono sterili, viola e arancio, punteggiate da cespugli di colore giallo. La guida rallenta e punta a un mucchio di pietre su una collina. Questi sono i resti di una piccola chiesa, la chiesa dei pastori, Kelisâ-ye Chupân, fondata nel 1518.

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Dieci chilometri più avanti, in un luogo che diventa improvvisamente un’oasi, con un miscuglio di alberi in un boschetto, arriviamo a una delle più belle chiese armene dell’Iran, il monastero fortificato di S. Stepanos. La valle è deserta, nessuno ha vissuto qui per secoli. Una volta l’Armenia si estendeva da qui al lago di Van, Tabriz era il suo ultimo posto verso l’Oriente, e Jolfa una tappa importante sulla Via della Seta, una città di commercianti e artigiani stimati. Durante il Rinascimento Jolfa aveva dei rappresentanti commerciali persino a Amsterdam.


Tuttavia, intrappolata fra i persiani, i russi e i turchi, la regione non poteva rimanere per sempre al di fuori dei conflitti che per secoli tormentavano il Caucaso. E nel 1606, quando Scià Abbas fondò Isfahan, invitò gli artigiani di Jolfa di stabilirsi lì e di essere i suoi maestri costruttori – e alla fine reinsediò l’intera popolazione di Jolfa a Isfahan. Durante la prima guerra mondiale la regione era sotto il controllo ottomano, e dopo il 1915 i turchi cercavano di cancellare tutte le tracce dela presenza armena. Nessun villaggio ha sopravvissuto, solo poche chiese. Gli unici resti di Jolfa nell’attuale enclave di Nakhichevan, un cimitero armeno costituito da quasi diecimila lapidi riccamente scolpiti prima del 17° secolo, sono stati interamente distrutti nel 2005 dall’esercito dell’Azerbaigian. O meglio, con le parole di Aliyev, presidente dell’Azerbaigian, «non fu distrutto nessun cimitero armeno, poiché non c’erano mai armeni in Nakhichevan.»

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Il monasterio di St. Stepanos fu probabilmente fondato prima del 7° secolo (la tradizione lo fa risalire all’Apostolo Bartolomeo). Occupa una superficie di circa 70 × 50 m, circondata da alte mure fortificate e torri circolari o semicircolari. Ha due cortili interni, uno al di fuori della chiesa, l’altro all’interno dell’edificio del monastero. Il campanile fu costruito vicino alla parete sud della chiesa. La chiesa recentemente restaurata ha una pianta a coce con tre absidi e un esterno riccamente scolpito, che mostra varie influenze, tra cui quella dell’arte selgiuchide, il cui rilancio era una delle caratteristiche del Rinascimento armeno durante il periodo safavide nel 17° secolo.

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Il luogo non era del tutto abbandonato, tutte le porte erano aperte, i custodi erano sorridenti e loquaci, i pochissimi turisti curiosi e attenti. Solo iraniani. O forse armeni. Sì, il custode era troppo orgoglioso delle competenze degli artigiani armeni a non essere uno dei loro discendenti.


mercoledì 25 marzo 2015

Transizione: «...cor meum vigilat»


Sicuramente vediamo qui un altro esempio di quella vita nascosta delle immagini, la quale ha tanto impressionato Aby Warburg, che la presentò come un fenomeno separato, chiamato Pathosformel, nel suo saggio del 1905 sul rapporto di Dürer all’antichità classica. Si tratta della sopravvivenza più o meno inconscia e atemporale di formule pittoriche espressive, la quale qui prende forma nei raggi provenienti dal cuore della guardia di sicurezza.



Le due porte stanno a pochi metri di distanza una dall’altra nel centro storico di Palma. La prima in carrer del Call, di fronte al ristorante «Las Olas». L’altro all’angolo di carrer de Sant Alonso e Santa Clara.

Carrer de Pont i Vich

Le placche del Sacro Cuore di Gesù con l’iscrizione in maiuscole «BENDECIRÉ» * erano una volta presenti su quasi tutte le porte della città. Oggi solo pochi di essi sopravvivono sulle porte interne che si aprono direttamente agli appartamenti. Sulla strada ce n’erano rimasti solo pochi rovinati. Il loro posto è occupato dal nuovo tipo di immagine, la cui presenza è legata a un canone mensile.


Claudio Monteverdi: Sacred Music. Roberto Gini, Lavinia Bertotti & Ensemble Concerto. «Ego dormio et cor meum vigilat» (Io dormo, ma il mio cuore veglia)