lunedì 30 giugno 2014

Via Dohány 68


Nel 1944 c’erano quasi duemila case di stella gialla a Budapest, ma l’Open Society Archive è riuscito di aprire solo poco più di una centinaia per la presentazione del giorno di mezza estate. Il resto è rimasto chiuso. La pagina dell’OSA pubblica la loro lista completa, chiedendo ai lettori di raccontare le loro storie.

Anch’io vorrei contribuire con una casa dalle quasi duemila. Ma anche se si riesce di entrare e fotografare il palcoscenico, sul quale tante generazioni hanno rappresentato le loro storie, che cosa ci racconta il palcoscenico di queste storie? Non posso pubblicare che le immagini, nelle quali ognuno può immaginare le storie di un centinaio – o aggiungere al post ciò che ne sa.

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«Mia madre aveva ancora un intero cassetto di queste lettere. Acquistavano terre dal 1880 in poi, pezzo per pezzo, come potevano, le coltivavano. Negli anni 50, dopo che la terra si è sequestrata, hanno anche temuto di conservare i documenti, anche essi potevano causare problemi. Li hanno messi sul fuoco, pezzo per pezzo. Solo questi pochi sono rimasti a me.»


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martedì 24 giugno 2014

A quattro mani


«Mio nonno camminò da Buda a Pest, a via Falk Miksa, per visitare la sorella Kamilla, che viveva lì con la figlia Klárika – suoi tre figli erano già stati portati via al lavoro forzato – in una casa di stella gialla. Appena entrato, si sono seduti a suonare il pianoforte a quattro mani. Era infatti caratteristico per la famiglia, che chiunque poteva sedersi con chiunque in qualsiasi momento per suonare a quattro mani. Hanno giocato operette, arie, ma anche generi più gravi. E il tempo è volato mentre si suonava, e sono già passate le cinque di pomeriggio, fino a quando era permesso a un ebreo di uscire in strada. ʻDai, cosa può andare male?’, disse mio nonno. ʻCertamente non si occuperà di un vecchio ebreo!’ Non è successo così. Alla fine di novembre, così come era uscito di casa, in una giacca sottile, in scarpe con buchi, è stato accompagnato a piedi a Deutschkreuz in Austria.»


La doppia casa di via Keleti Károly 29-31 fu progettato nel 1909 dal più grande duo architettonico del Liberty ungherese, Marcell Komor e Dezső Jakab. Le due ale fronte strada per casa d’affitto, mentre l’edificio più in sopra, in fondo al giardino, per le proprie famiglie. «Al fine che la loro leggendariamente buona cooperazione non fosse disturbata da niente, hanno nettamente separato tutto», ricorda il nipote di Marcell Komor, Tamás Székely, un’ingeniere egli stesso. «A sinistra era la casa d’affitto Komor, a destra la casa d’affitto Jakab. Nell’edificio di sopra, a sinistra l’appartamento Komor, a destra l’appartamento Jakab, con entrate e scalinate separate. Solo l’ufficio Komor e l’ufficio Jakab al primo piano erano collegati con una sola porta.Sul fronte strada sorgeva una volta un enorme portone intagliata, con due piccole porte: la porta Komor a sinistra, e la porta Jakab a destra. E noi siamo sempre entrati e usciti attraverso la porta Komor, e la famiglia Jakab sempre attraverso la porta Jakab, e non mi ricordo di nessun caso quando sia successo il contrario.»

L’unica eccezione è quella foto, che è stata probabilmente scattata poco dopo la costruzione della casa. In essa, Marcell Komor siede al lato destro della casa, sulla panchina Jakab, con la figlia Anna.

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«Solo il lato sinistro del palazzo, la casa Komor è stata dichiarata una casa di stella gialla, la casa Jakab no. Molta gente si trasferì nella casa, sia conoscenti che sconosciuti. Mio nonno rimase lì, sopportando la situazione con dignità e calma.»

La casa Komor è stata colpita da una bomba alla fine di gennaio del 1945, non appena due settimane prima della fine dell’assedio di Budapest. La parte superiore, l’appartamento della famiglia Komor si è completamente bruciato. Ma la casa è stata saccheggiata molto tempo prima.

«Il 19 marzo 1944 alcuni ufficiali tedeschi arrivarono alla casa Komor-Jakab, la quale, naturalmente, era piena di oggetti di valore e d’antiquariato, sculture, dipinti.
Nel 1944 Dezső Jakab era già morto, Marcell Komor era ancora vivo.
La vedova di Jakab, Irén Schreiber, * lasciò entrare gli ufficiali estremamente gentili ed eleganti, che avevano attraversato il confine ungherese quella stessa mattina.
Siccome la vecchia signora non aveva dubbi sullo scopo della visita degli ufficiali, ha subito offerto di guidarli attraverso l’appartamento, ed elencare gli oggetti di valore.
I soldati l’hanno però gentilmente declinato, dicendo che avevano ancora molti altri luoghi da visitare in quel giorno. Hanno preso solo un foglio di carta, con la lista esatta e dettagliata di tutti gli oggetti di valore nella casa, fino all’ultima piccola cornice. Alla fine della lista qualche righe annunciavano che la Banca nazionale tedesca avrebbe pagato per tutto questo, una volta la guerra sarebbe finita. «Firmi qui, per favore», hanno detto i schneidig soldati, che, dopo aver compiuto la loro missione nella casa Komor, se ne sono andati.»

Iván Bächer: “Komorok. Egy pesti polgárcsalád históriájából”
(I Komor. Dalla storia di una famiglia borghese di Budapest), Budapesti Negyed 1996/4

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«A quel tempo non ero a casa. Avevo diciotto anni, e ho servito la patria lontano da qui. Solo dopo il mio ritorno a casa sono venuto a sapere cosa era successo. Ho chiesto a uno dei colleghi di mio nonno, un architetto, che era deportato insieme a lui fino a Deutschkreuz, ma lui è riuscito a tornare a casa. Gli ho chiesto come morì mio nonno. Non voleva parlarne affatto. Solo dopo un lungo periodo mi ha detto che era orribile, che era assolutamente orribile. Non sono venuto a saperne di più.»


Brahms: Quinta danza ungherese per pianoforte a quattro mani. Mirka Lachowska e Edgar Wiersocki, 2008


lunedì 16 giugno 2014

Superfici

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domenica 15 giugno 2014

Luce

«Luce eterna in memoria degli abitanti di questo quartiere ebraico.»

In Lublino, all’ingresso del parcheggio stabilito sul luogo del quartiere ebraico fatto scoppiare dagli nazisti e livellato dal regime comunista.

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domenica 8 giugno 2014

Pentecoste, 1915


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Gita di Pentecoste dell’Associazione per Socializzare e Escursioni, novantanove anni fa. Dal mercato delle pulci di Berlino

venerdì 6 giugno 2014

Il punto fertile


Se si prende la via tramite la montagna verso Vișeu de Jos/Alsóvisó da Izakonyha in Maramureș – in yiddish קעכניא, in rumeno Cuhea fino al 1973, quando Ceaușescu gli ha dato il nome del leggendario voivoda Bogdan, e il regime post-Ceauseșcu nel 2008 anche il suo gruppo statuario di bronzo –, e dopo circa sei chilometri, poco prima di raggiungere il villaggio di Bocicoel/Kisbocskó, si guarda indietro ancora una volta dalla cresta, una vista mozzafiato si apre davanti agli occhi. L’ora d’oro dipinge con mille sfumature calde le colline accidentate da torrenti, le quali si scendono gradualmente verso la valle del fiume Iza galleggiante in nebbia, e da lì si aumentano di nuovo verso la catena montuosa non troppo lontana della Țibleș, divisa a intervalli quasi regolari dalle cime del Ţibleş/Cibles (1839 m), Hudin/Hunyad (1615 m), Secului/Székelykő (1311) e all’estrema destra, l’appena menzionata Gutâi/Gutin (1443 m). Il bacino dell’Iza è solo uno delle quattro grandi vallate fluviali – Vișeu/Visó, Iza, Mara/Mára, Sapânța/Szaplonca – che costituiscono Maramureș, tuttavia questo punto di vista sembra di riassumere l’intera regione in una maniera unica. Non è per caso, che abbiamo introdotto con questa foto, scattata lo scorso maggio, l’annuncio del nostro primo tour Maramureș-Bukovina.


La strada stretta e tortuosa dalla valle dell’Iza al crinale, e da lì al valle del Vișeu/Visó non è nota a molti, non è raccomandata dalle guide turistiche, e anche il route planner Google propose una deviazione invece di essa. Tuttavia, proprio come lo abbiamo trovato noi lo scorso maggio, così hanno trovato tanti altri questo belvedere naturale, nascosto e magico,  e le foto scattate da qui giocano, come nel nostro blog, un ruolo iconico anche nelle varie pubblicazioni di Maramureș.


Il lavoro fondamentale sull’architettura tradizionale di Maramureș, The Wooden Architecture of Maramureș da Dan Dinescu e Ana Bârcă (1997) – dal quale abbiamo già citato la similarmente iconica foto della chiesa di Ieud/Jód, e scriveremo anche sull’intero libro – inizia il capitolo sui villaggi del Maramureș con questa foto (clicca su di essa). Invece di maggio, qui siamo già a fine estate, le foglie argentee dei pioppi sono già spesse, e nel primo piano si erge il tipico pagliaio di Maramureș.


Forse proprio quel pagliaio si sta componendo nel bellissimo album recentemente pubblicato da Florin Andreescu di Bucarest: Maramureș, țară veche (Maramureș, terra antica, 2011), su cui pure scriveremo presto. E nello stesso album, poche pagine più avanti, si apre anche il lato destro del paesaggio, con la Gutâi/Gutin nel sottofondo.


E il lato sinistro del paesaggio introduce il capitolo riguardante la geografia della regione nell’eccellente guida di 500 pagine su Maramureș, pubblicata dalla casa editrice finlandese Metaneira (2007, clicca sulla foto qui sotto). La foto potrà essere scattata più o meno dieci anni fa: il pioppo solitario, come si vede nella nostra foto dello scorso maggio, ha già un sacco di giovani rivali, ma il piccolo melo di due terrazze più in alto non è cresciuto molto.


La preparazione di ulteriori foto iconiche sarà il compito dei nostri lettori, soprattutto di quelli che parteciperanno al nostro tour di Maramureș alla fine di giugno, o – come è sempre più certo – alla sua ripetizione progettata tra il 20 e 24 di agosto.

Il punto fertile il 1 di novembre di 2019, verso le 5 del pomeriggio

mercoledì 4 giugno 2014

Le tre Grazie


Oggi sono andato al Deutsches Historisches Museum di Berlino per vedere la mostra sulla prima guerra mondiale annunciata con grande enfasi. È vano sprecare molte parole sulla mostra, quando una sola la descrive: noiosa. Nel seminterrato, in una grande stanza, un’installazione turbolenta cerca di presentare l’intera storia della prima guerra mondiale. Il tentativo è un completo fallimento. Chi non conosce in dettaglio l’andamento della guerra, non sarà in grado di comporre in un unico quadro gli oggetti esposti nei vari reparti contrassegnati con i nomi dei teatri delle operazioni militari, e presentati in modo – «ach, wie schrecklich, der Krieg!» – di massimizzare l’effetto emotivo. E chi lo conosce, vedrà chiaramente il carattere casuale e banale della selezione. Non avrei nemmeno scritto di essa, se, poco prima dell’uscita, nel reparto dedicato agli avvenimenti del dopoguerra, non avessi intravisto un ultimo oggetto esposto.


La targa di bronzo, larga più o meno un metro, una volta ornava l’edificio del Parlamento Croato di Zagabria, mentre oggi è conservata nel Museo Storico della Croazia. Secondo la sua iscrizione – «narodno vijeće na spomen proglašenja slobodne nezavisne države slovenaca hrvata i srba u hrvatskome saboru, XXIX. X. MCMXVIII.» – fu sollevata dal Consiglio Nazionale per commemorare la proclamazione dello stato libero e indipendente degli sloveni, croati e serbi il 29 ottobre 1918. Le tre figure femminili in abiti classici, che personificano i tre popoli, si stringono le mani. Le figure sulla sinistra e destra tengono nelle loro mani libere gli stemmi della Grande Croazia e Grande Serbia, compilati di una vasta gamma di regioni. Le mani di quella al centro sono occupate, ma neanche lei rimane senza uno stemma. Lo ha sotto il piede.


Se le tre nazioni sorelle slave meridionali vogliono celebrare la loro unione sul muro del Parlamento Croato, che lo facciano, anche se la sincerità del gesto è seriamente messa in dubbio dalla permanente guerra fratricida combattuta da allora fra di loro sia con la penna che con la mitragliatrice. Ma che in questa occasione hanno trovato necessario immortalare, aere perennius, anche il calpestio sul (l’araldicamente difettoso) stemma dell’Ungheria, con cui la Croazia ha combattuto insieme per tutta la prima guerra mondiale; che non hanno vinto, ma se ne sono separati in virtù del trattato di pace; e con la quale erano per ottocento anni in unione personale, e combattevano insieme contro l’impero ottomano e i suoi predoni nei Balcani, così che qui anche calpestano il proprio stemma e gli ottocento anni della propria storia – questo appartiene già alla patologia delle recentemente create piccole nazioni dell’Est. E illustra, insieme a migliaia di gesti simili, perché quel trattato di pace – di cui oggi commemoriamo il novantiquattresimo anniversario – rimane tuttora un vivido peso psicologico e emotivo, al di là di tutte le considerazioni e necessità storiche.

Ivo Kerdić, lo scultore, creatore di numerose sculture e medaglie patriottiche dopo la prima guerra mondiale, sembra di aver imparato a fondo i principi del classicismo romano durante i suoi viaggi di studio. Tuttavia sembra che né lui né i suoi committenti avevano mai sentito parlare del principio più importante della Roma classica, con il quale essa poteva conservare e far fiorire le sue conquiste, e il quale è riassunto in quattro parole come l’arte del governo da Virgilio nel famoso versetto 6.853 dell’Aeneis:

parcere subiectis et debellare superbos
risparmiare gli arresi, e sgominare gli arroganti

Per imparare la seconda parte del principio, avevano un sacco di tempo fra 1991 e 2001. La prima parte però sembrano di non aver mai imparato.

Di fronte al mare


Ciottoli sulle tombe.
I giocattoli di una bambina, giocattoli di pietra.
Un treno, un aereo, una macchina. Nizza, capolinea. Nice, Nizza, Niza, Nica, Nissa, Ніцца, Ηίκαια, Nicea, Nicaea, Nisa, Ницца. Sognavano la Riviera, e poi un giorno hanno ricevuto il passaporto, hanno avuto il visto, potevano acquistare il biglietto, e voilà, si prende i bambini, la bambinaia, la nonna, le zie fanciulle, il zio tisico, il cane, il pappagallo, la serva. Ci si trasferisce in Francia, si manda i bambini a scuola, si lavora, si lavora di più, si ottiene la naturalizzazione, si fa il servizio militare, si muore per la Francia.

Si muore.
Il cimitero ebraico di Nizza si estende da quasi un secolo e mezzo sulla collina del castello, proprio di fronte al mare.
Sulle tombe, vecchie foto rosolate, cancellate, lavate, faccie sorridenti o riflessive o serie o orgogliose.

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Sono nati a Kiev, a Varsavia, a Kishinev, a Mariupol, a Kherson, a Odessa o a Nikolajev, a Kaunas, a Berlino, a San Pietroburgo, a Leopoli, a Radautz in Bucovina, oggi Rădăuți in Romania, anche in Algeria, a Oran o a Costantino, a Taganrog, a Costantinopoli e a Londra, anche a Rangoon in Birmania, o a Cairo. A Johannesburg.


Sono morti a Nizza, o a Mentone, o a volte più lontano, ma la loro famiglia li ha riportati ai loro. Al sole sopra il mare.

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Negli anni neri, che qui erano meno neri che altrove, alcuni di loro sono morti molto lontano, all’Est. Di loro non resta che poche righe alla loro memoria.



Alcune pietre ci sorprendono con la loro tipografia arcaica. Infatti, si ha trasferito qui le antiche pietre del cimitero ebraico precedente, che era alla base del pendio della collina. La pietra più antica si data dal 1540. Su altre, le lettere di rame rinverdito rispecchiano in pietra la moltitudine delle una volta vive lingue: francese, ebraico, polacco, italiano, russo con pre-1918 ortografia antica, inglese, tedesco. E incise in pietra, lettere cancellate, parole dimenticate.

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A poco a poco le pietre scompaiono sotto i piedi dei passanti che si ricordano. Giù, sotto gli alberi, l’azzurro del mare.

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