venerdì 23 dicembre 2016

Tusheti. Su un’altro tetto del mondo


Stiamo guidando in salita sulla strada scavata nella roccia. Cascate precipitano sulle pareti verticali, corrono attraverso la strada di fronte a noi, e al bordo della scogliera cadono giù nell’abisso vertiginoso. A volte guidiamo fino agli assali nel torrente che inonda la strada. La striscia sottile della strada corre lungo il bordo della valle come una linea di livello, alla testa della valle gira bruscamente indietro, e sale verso il prossimo passo. Il fiume Stori ruggisce sempre più in profondità sotto di noi, le cime del Gran Caucaso sono sempre più ripide, e le nuvole, come grandi uccelli rapaci grigi, scendono sempre più in basso sopra le nostre teste.



Vai via di nuovo. Dall’album di musica popolare georgiana Idjassi (2005)

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È fine giugno. La neve si è sciolta poco tempo fa sul Passo Abano, alto 2900 metri. I muri di neve con i loro strati colorati stanno lungo la strada come sezioni di minerali venosi. Siamo allo spartiacque del Caucaso, da qui i fiumi scorrono verso nord, attraverso la valle di Tusheti, oltre il confine di Daghestan. Sotto di noi, le montagne verdi di Tusheti. Dal passo si possono ancora vedere, al di là di esse, le creste innevate della Pirikita, la montagna di confine cecena, che poi a poco a poco si affonda, per riapparire in modo spettacolare quando siamo in Tusheti.

Tusheti e la valle del fiume Alazani sul lato nord e sud del Gran Caucaso. La strada sterrata di 70 km, percorribile solo con fuoristrada o a piedi, conduce da Pshaveli attraverso il Passo Abano a Omalo. Tusheti è segnata in rosso sulla piccola mappa inserita della Georgia. (Ingrandire!)

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È piovuto per giorni. Poco prima di Tusheti, la collina è franata nel fiume, bloccando la strada. Un bulldozer solitario sta pulendo la colata di fango, la lotta impari apparentemente durerà per diversi giorni. Dobbiamo camminare poche centinaia di metri in cima della terra ancora in movimento, per poi prendere i fuoristrada inviati per noi dai villaggi di Tusheti. Ancora un paio di scogliere solitarie, alcune anse del fiume sotto di noi, e in alto, sul fianco della montagna appare il primo villaggio solitario. Dopo Ushguli, Xinaliq e Masouleh, siamo di nuovo su uno dei tetti del mondo.


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Tusheti è la seconda più alta regione popolata della Georgia, dopo Svaneti nel nord-ovest, ma è molto più isolata di quella. Una sola strada porta fino a qui, la stessa strada sterrata lunga settanta chilometri, che abbiamo appena percorso. Essa è praticabile solo tra inizio giugno e fine settembre, perché il passo è coperto di neve nel resto dell’anno. In questo periodo il paesaggio diventa verde, e le piante iniziano una fioritura spettacolare per sfruttare la breve estate. E in questo periodo anche gli abitanti di Tusheti salgono dai loro villaggi nel sud, lungo il fiume Alazani, dove si erano trasferiti negli ultimi decenni, per riparare le loro case, per assumere la cura delle pecore e mucche dai pochi vecchi che prendono cura di tutti gli animali del villaggio durante l’inverno, e per offrire alloggio ai turisti, che appaiono, anche se non in massa, ma sempre con più coraggio, in questa regione arcaica della Georgia.



Canto d’amore di Tusheti. Dall’album Idjassi (2005)

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Gli abitanti di Tusheti sono per lo più georgiani kakhetiani, che parlano un antico dialetto georgiano, e che, secondo la propria tradizione, fuggì qui, al nord dalla cristianizzazione della Georgia intorno al 4º secolo. L’altra parte, la tribù dei Bats, che parlano un linguaggio relativo al ceceno e inguscio, fuggì qui, al sud dall’islamizzazione del lato settentrionale del Caucaso nel 16º secolo. Oggi entrambi i popoli sono nominalmente cristiani ortodosso, ma la prima chiesa si è aperto da poco nella valle, e le tradizioni religiose animistiche pre-cristiane sono ancora molto vivide. I confini delle zone abitate sono indicate con sacre colonne del corno di ariete, e intorno a ogni villaggio ci sono dei prati recintati, dove gli uomini si riuniscono per rituali di fertilità. Nell’estate è il compito dei bambini che giocano vicino a questi prati avvertire le turiste di non entrare nella zona sacra, perché la presenza di donne romperebbe il suo potere.


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Il villaggio centrale della valle è Omalo, un insieme sciolto di cascine secolari intorno al castello a cinque torri di Keselo. La fortezza, che sorge imponente sotto la cresta bianca delle montagne di confine del Daghestan, aveva persino resistito l’assalto dell’esercito mongolo.


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L’altro centro di Tusheti, il villaggio medievale di Dartlo, è di quindici chilometri di distanza, e cerca un’ora con fuoristrada, a ovest dell’Omalo nella valle del fiume Pirikita Alazani. Sopra il villaggio si erge il Monte Dartlo di 4300 metri di altezza, sulla cui vetta s’incontrano le frontiere triple di Cecenia, Dagestan e Georgia, e attraverso cui passi i ladri del Daghestan avevano invaso la Georgia per secoli. Contro di loro si costruirono la fortezza di Dartlo e le torri di guardia delle case del paese, che imitano piuttosto lo stile del nemico, le coniche torri di guardia cecene e inguscie sul lato del nord del Caucaso, che non le torri a pareti dritte della Svaneti. Accanto al villaggio, al di là del torrente, affinché i morti non si mescolino con i vivi, si trova il cimitero, dove le tombe sono marcate con semplici pietre senza iscrizione, secondo l’antico costume del Caucaso. Le case sono state splendidamente restaurate, e anche un pub elegante si è costruito in stile antico della Tusheti. I tushetiani, benché si fossero trasferiti nelle valli, e passano qui solo l’estate, apparentemente considerano il villaggio ancestrale la loro vera patria.


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Il prossimo estate portiamo di nuovo un gruppo a Tusheti e alle vicine regioni della Georgia. Se volete venire con noi, scriveteci a wang@studiolum.com.


venerdì 16 dicembre 2016

Il falso amico


I timbri postali spesso si associano con storie sorprendenti. Tuttavia, una storia più sorprendente del seguente non leggeranno oggi. L’oggetto seguente è apparso oggi su un sito di aste:

«Timbro postale con l’iscrizione Poštovní úřad Ilnice in ceco e serbo, dal villaggio albanese di Ilnice / ca 1910 Albania, Ilnice, Czech postal station seal maker 36 mm»

Ha dovuto essere infatti un momento storico, il culmine del multiculturalismo dei «tempi felici di pace», quando il primo ufficio postale fu aperto nel villaggio di montagna albanese di Ilnicë, tra le pittoresche montagne dei Balcani, non lontano dal confine macedone di oggi. E che ufficio postale! Con il timbro bilingue, in ceco e serbo, e con il leone a due code al posto dell’aquila a due teste dell’impero austriaco o del regno albanese. E questo nel 1910, quattro anni prima della Grande Guerra, e otto anni prima dei grandi cambiamenti di confine dell’Europa centrale. Che bell’armonia delle nazioni dell’Europa centrale! Oh, se fosse rimasto così!


Ma non è rimasto così. E forse così non era mai. Infatti, che è la fonte di questa localizzaione? Il fatto che, se si cerca «Ilnice», Google punta al villaggio albanese. Non c’è altro risultato. Se invece con un minimo di buon senso si pensa a dove e quando si usava contemporaneamente iscrizioni ufficiali in ceco e in cirillico sotto gli auspici del leone a due code, si rende conto che non poteva essere che nell’angolo diametralmente opposto dell’ex monarchia austro-ungarica, in Rusinsko, annesso dall’Ungheria alla Cecoslovacchia nel 1920. E poi è già facile da trovare, non lontano da Nagyszőlős/Vinogradov, lungo il torrente Ilnicka, il villaggio di Ilonca (in ceco Ilnice, in rusino Ильниця, in rumeno Ilniţa, nel moderno nome ufficiale ucraino Ільниця), del quale nessun nome storico, come quelli sul timbro, sono noti da Google.

Nella linguistica un “faux-ami”, falso amico è una parola che suona in modo simile in due lingue, ma ha un significato diverso in ciascuno. Come il ceco Ilnice e l’albanese Ilnicë. La descrizione d’asta di sopra anche dimostra, che senza la dovuta attenzione e critica delle fonti, anche Google può essere il tuo falso amigo.

Non siamo riusciti di trovare alcuna cartolina contemporanea di Ilonca. Questa è dalla vicina Ilosva, che si trovava più vicino alla strada principale e la ferrovia, e così poteva contare su più clienti di cartolina. In ogni modo è più vicino a Ilonca che l’albanese Ilnicë.

martedì 13 dicembre 2016

Musica d’inverno


Lasciando la città di Alaverdi, che da tempi immemorabili ha fornito tutta la regione con rame dalle sue ricche miniere, e atraversando il ponte del 12º secolo, sulle cui balustrade quattro gatti di pietra languiscono sotto il sole, il ripido sentiero di monte finalmente ci porta al monasterio di Sanahin. Dall’altra parte della valle è anche visibile il monastero di Haghpat, i due stanno su lati opposti di un abisso lato del fiume Debet, che scorre attraverso Lori, la provincia settentrionale dell’Armenia. Secondo Wikipedia, «sanahin» significa «questo è più vecchio di quello», con apparente riferimento al suo vicino rivale.

È passato quasi un anno da quando ero lì la prima volta, poche ore dopo una nevicata di tardo inverno. L’aria era fresca, e nel sole del pomeriggio l’acqua gocciolava abbondantemente dai rami degli alberi, ancora fortemente piegati dal peso che si stava rapidamente disintegrando. Come lo faccio spesso quando visito luoghi sconosciuti, ho prima fatto una registrazione audio di quell’atmosfera.

Sono lieto di annunciare, che la registrazione è stata inclusa nella lista delle «Best Winter Music del 2016» del sito A Closer Listen:

«I filecasts di nula sono tra i più misteriosi che si trovano online. Regolarmente pubblica registrazioni del campo, che evocano tempi e luoghi. Questo deriva dal monastero Sanahin dell’Armenia, dove «la neve del tardo inverno è bagnato e pesante, grondante abbondantemente sotto il sole pomeridiano». La registrazione ci rammenta che il cambiamento delle stagioni può anche riflettere un cambiamento spirituale, quando i fardelli pesanti diventano più leggeri, i cuori si sciogliono, gli occhi si volgono di nuovo verso il sole. È anche d’interesse l’ultima composizione di nula: cold fire


Musica dell’inverno a Sanahin. Registrazione di Lloyd Dunn, febbraio 2016 (11'10")

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Vedi anche il post originale sul mio sito web.

lunedì 28 novembre 2016

«Templi ebraici». Reliquie di un periodo d’oro


La Legge d’Emancipazione del 1867 – che oggi centoquarantanove anni fa fu approvato all’unanimità dal parlamento ungherese – aprì la strada per l’ascesa sociale agli ebrei ungheresi. Allo stesso tempo, il Compromesso austro-ungarico portò un boom economico mai visto per tutto il paese. La borghesia ebraica aveva tutte le ragioni per pensare che Canaan è già qui (come fu detto in un altro contesto dal grande poeta contemporaneo Sándor Petőfi).

Questo sentimento, quest’atmosfera orgogliosa e fiduciosa dell’emancipazione sociale ed economica si manifestò nelle grandi sinagoghe costruite alla fine del secolo. Come Tamás Halbrohr, emerito superiore della sinagoga di Szabadka/Subotica cita le parole dei loro costruttori, «noi costruiamo non sinagoghe, ma templi ebraici», centri sacri alla pari con le chiese cristiane, il cui disegno e soluzioni architettoniche ricordano anche il Tempio di Gerusalemme e l’età d’oro con esso associato. Tali erano le sinagoghe delle grandi città, Budapest, Pozsony/Bratislava, Nagyvárad/Oradea, Szeged, il cui stile storicista e spesso orientalista evoca i millenni della storia ebraica. O le impressionanti sinagoghe della grande pianura ungherese, Hódmezővásárhely, e soprattutto Szabadka/Subotica, che utilizzarono i motivi dell’«Art Nouveau ungherese», ideato dagli architetti di Budapest, per l’espressione della loro identificazione con la nazione ungherese.


Nel corso dell’anno scorso abbiamo visitato questi magnifici templi ebraici con la squadra di Eti Peleg. In ogni luogo abbiamo parlato con storici dell’arte, architetti, storici locali, i membri della comunità locale, per evocare le intenzioni dei costruttori e committenti di una volta, e lo spirito del tempo che prese corpo negli edifici. Lo spirito di un tempo che, se non lo contempliamo con la nostra saggezza retrospettiva, attraverso la prisma della tragedia di un mezzo secolo dopo, possiamo davvero considerare come l’età d’oro degli ebrei ungheresi.

Il film è completo, ora siamo alla ricerca di distributori. Nel frattempo pubblichiamo il seguente breve riassunto. E ancora una volta ringraziamo tutti coloro che hanno contribuito alla sua preparazione.



mercoledì 16 novembre 2016

Le tre sinagoghe del campo di concentramento


All’entrata in vigore dei provvedimenti per la difesa della razza, il numero degli ebrei stranieri residenti in Italia risultava di 9170. Molti vi vivevano da qualche decina di anni, altri vi erano arrivati nella speranza di trovare rifugio e protezione, sfuggendo così alla privazione di ogni diritto nel loro paese, compreso quello di cittadinanza, e alla caccia all’ebreo messa in atto dal regime nazista, a partire dal 1935, con l’emanazione delle Leggi di Norimberga. Nel 1938 iniziò così per loro, anche in Italia, un vagabondaggio che ebbe tra i suoi punti di partenza o di arrivo Genova. Molti di loro erano studenti, provenienti dai migliori istituti dell’Europa Orientale, che chiedevano solo di poter iniziare e sperabilmente concludere in Italia il loro ciclo di studi. Presso l’archivio dell’Università di Genova, e di altre città italiane, si trovano quindi i loro fascicoli personali che contengono i dati anagrafici, informazioni relative al corso di studi e cioè gli esami sostenuti, il voto, il titolo della tesi di laurea, l’indirizzo di residenza nelle città di provenienza e l’indirizzo di residenza in Italia. Su molte delle schede personali è indicata, con un timbro apposto sulla parte superiore, l’appartenenza alla razza ebraica. Il vagabondare di Università in Università per concludere il corso di studi ne fece a tutti gli effetti «studenti ebrei erranti».



La loro erranza si concluse nel 1940 con l’internamento in appositi campi riservati ad Ebrei Stranieri provenienti dai Paesi dell’Europa orientale. Uno di questi fu il campo di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, nel sud dell’Italia. Costruito su un terreno paludoso come estensione del nucleo di baracche che avevano ospitato gli operai della ditta Parrini durante le operazioni di bonifica. Benché il terreno non corrispondesse alle indicazioni del Ministero dell’Interno, Parrini riuscì ad ottenere la concessione grazie alle amicizie di cui godeva e impose al primo gruppo di ebrei che arrivarono al campo di lavorare all’ampliamento dello stesso. Riuscì ad imporre anche uno spaccio di generi alimentari da cui i prigionieri erano costretti ad approvvigionarsi.

Campo di Ferramonti

Interno di una baracca a Ferramonti

Ferramonti fu più simile ad un villaggio che ad un lager, per diverse ragioni: la presenza tra i dirigenti di persone di spiccata umanità, come il primo direttore Paolo Salvatore. Gli stessi prigionieri, in gran parte colti e affermati professionisti, agirono sempre con intelligenza e spirito di collaborazione. Contribuì non poco la popolazione locale che fu generosa e accogliente. E la presenza di un monaco mandato dal Vaticano che svolse un’attività pratica e non spirituale.

Padre Callisto Lopinot

Grazie alla scelta non repressiva di Salvatore, la vita si svolse in maniera il più possibile tollerabile. Non venivano negate autorizzazioni ad uscire dal campo se necessario. Era consentito scattare fotografie, ascoltare la radio, fu creata una scuola elementare e spesso proprio lui, Salvatore, portava i bambini fuori dal campo con la sua automobile per comprare il gelato o li scorrazzava per il campo in motocicletta.

Paolo Salvatore

Esisteva una biblioteca e si stampava un giornalino. Esisteva un forno dove venivano cotte le Matzah rituali e laboratori di sartoria per provvedere all’abbigliamento degli internati.



Esisteva un Parlamento composto da un referente per ciascuna baracca e l’insieme dei referenti eleggeva «il capo dei capi» che relazionava con la direzione del campo.

Il Rabbino Pacifici al Parlamento di Ferramonti

Le famiglie non venivano separate, e si celebravano matrimoni. A Ferramonti nacquero 21 bambini.

Matrimonio ebraico

Bambini a Ferramonti

Sebbene fossero tutti ebrei, si trovavano a Ferramonti tre sinagoghe: una ortodossa, una riformata e una specifica per un gruppo sionista appartenente all’organizzazione Betar.

Interno di una delle tre sinagoghe

Cultura e sport agirono da collante per tenere il più possibile uniti gruppi così disomogenei. Si organizzarono concerti, rappresentazioni teatrali, letture, gare di poesia. Molti di loro erano artisti o professionisti affermati, una baracca venne adibita a laboratorio e utilizzata anche da Michel Fingestein, pittore e incisore, noto per i suoi Ex-libris. Si svolse anche un campionato europeo di calcio: della partita Jugoslavia Polonia esiste ancora la cronaca scritta.

Al pianoforte è il Maestro Lav Mirski; i due cantanti sono Gildin Gorin e Elly Silberstein

Baracca adibita ad atelier per artisti. Michel Fingenstein è il primo seduto a sinistra

Partita di calcio

Fame e insetti erano comunque presenti a Ferramonti insieme alla consapevolezza che qualcosa di terribile stava accadendo altrove.

Vi furono internati gruppi di ebrei romani, provenienti dalla Germania e dall’Austria, ebrei polacchi e più in generale provenienti dall’Europa Orientale, ebrei provenienti dalla Libia, da Lubiana, dalla Serbia, e gli ebrei appartenenti al gruppo del Pentcho, battello fluviale partito dal porto di Bratislava, con la speranza di giungere in Palestina ma naufragato purtroppo al largo dell’Isola di Rodi.

Pentcho

Tra gli internati del campo vi erano anche gruppi di jugoslavi partigiani e greci e di cinesi.

Nel ’43, quando l’esercito tedesco iniziò la ritirata, molti degli internati, i più giovani, vennero fatti nascondere nei boschi e nelle case dei contadini delle campagne circostanti. Il monaco riuscì ad impedire l’ingresso dei tedeschi nel campo dichiarando che nel campo imperversava un’epidemia di colera. Il campo fu liberato nel settembre del ‘43 dagli inglesi che impedirono a molti di emigrare in Palestina. Furono tanti quelli che rimasero nel campo sino alla fine della guerra e oltre prima di decidere dove ricominciare a vivere.

Brigata Ebraica a Ferramonti


Molti di loro divennero famosi in campo artistico, letterario, scientifico o sportivo. Ernst Bernhard, berlinese, divenne medico e psichiatra e fu un importante allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo. Richard Dattner, ebreo di origine polacca, dopo la guerra emigrò negli Stati Uniti dove diventò un famoso architetto. Oscar Klein, ebreo austriaco, divenne uno dei trombettisti jazz più famosi al mondo. Imi Lichtenfeld, nato a Budapest, in assoluto fra i più famosi personaggi delle arti marziali e fondatore del metodo di combattimento e autodifesa chiamato Krav Maga, fu tra i fondatori dell’esercito israeliano. David Mel, medico jugoslavo, fu più volte candidato al Premio Nobel per la scoperta del vaccino contro la dissenteria. Alfred Weisner, inventore del sistema di produzione del gelato Algida e fondatore dell’omonima società.

Come sono venuta a conoscenza di questa storia? Grazie a Ferramonti, il campo ʻsospeso’, il documentario realizzato da Christian Calabretta, trasmesso su Rai Storia una domenica pomeriggio. Mi è venuta voglia di approfondire, ho scritto a Mario Rende autore del saggio Ferramonti di Tarsia pubblicato da Mursia e da lui sono venuta a conoscenza del gruppo di «ebrei Genovesi». Ho trascorso due giorni nell’Archivio dell’Università di Genova dove ho potuto consultare i fascicoli personali degli studenti, soprattutto medici.

Un elenco degli internati, con paese di provenienza, dati anagrafici e paternità, iter di internamento è stato compilato da Anna Pizzuti ed è possibile effetturare la ricerca on line utilizzando diversi criteri: Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico

Di alcuni di loro si conoscono i volti grazie ai materiali conservati e resi disponibili in rete dall’Università di Bologna, dal Comune di Ferramonti. Ne voglio condividere alcuni convinta che molto altro materiale fotografico si trovi negli album di famiglie sparse ovunque in Europa e nel mondo, insieme a diari, ricordi e molto altro. Nelle didascalie delle foto troverete nome e cognome, luogo e data di nascita, paternità e maternità.

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Io stessa, su richiesta di Yolanda Bentham, figlia di David Ropschitz (nato nel 1913 a Lemberg/Lwów, allora Austro-Hungaria e più tardi Polonia, laureatosi a Genova in medicina e internato a Ferramonti), dopo mesi di ricerche sono riuscita a risalire all’identità di un compagno di studi e di prigionia, caro amico del padre.

David Ropschitz, Isaac Klein, Isacco Friedmann

Non è stato facile perché la storia di Isacco è molto diversa da quella degli altri studenti. Nato a Brody nel 1914, venne in Italia nel 1921, quando il padre Leone, che era stato fatto prigioniero durante la 1° Guerra Mondiale, venne liberato e sollecitò la moglie a raggiungerlo in Italia con il figlio. A Genova, dove era stato imprigionato a Forte Begato, aveva trovato un ambiente amichevole e aveva potuto riprendere l’attività abbandonata in patria. Brody era uno dei centri più importanti dell’ebraismo, tanto da essere definita la Gerusalemme dell’Impero Austriaco, e strategico per i commerci. Tra le attività più fiorenti c’era la sartoria con 139 botteghe artigiane, tutte di ebrei, e industrie. Il sindacato dei sarti era tra i più influenti e aveva un proprio rabbino tenuto in grande considerazione dal resto della Comunità ebraica.



La decisione di Leone di fatto salvò la vita alla moglie Sara e al piccolo Isacco. Durante gli anni dell’occupazione nazista tutti gli ebrei di Brody furono uccisi, tra questi anche 16 famigliari di Isacco, o deportati e morirono nei campi di concentramento.

Entrata del Ghetto di Brody, 1942-1943

Ebrei di Brody in attesa di essere deportati

Sara intraprese dunque questo lungo viaggio attraverso l’Europa e fu costretta a rimanere a Praga per un certo tempo quando il piccolo Isacco si ammalò di tifo. Quando finalmente la famiglia si ricongiunse iniziò per i Friedmann un periodo di prosperità.

Da sinistra Isacco (Iso), la madre Sara, i fratellini Giuseppe e Sigismondo (Gigi) nati in Italia e, dietro di loro, il padre Leone

Isacco studiò al Liceo Cassini e si laureò in medicina l’11 luglio del 1939 e visse sino ad allora una vita ben diversa dagli altri studenti ebrei che erano stati costretti ad abbandonare le loro famiglie, i loro paesi di origine per salvarsi dalla recrudescenza delle leggi razziali. La sua spensieratezza venne purtroppo ridimensionata con la deportazione a Ferramonti, nel 1940.

Isacco Friedmann, a sinistra, con un gruppo di medici internati a Ferramonti

Isacco arrivò a Ferramonti con il primo gruppo, quello che in pratica rese agibile il campo agli altri anche occupandosi di mansioni umili e faticose. Seppe conquistarsi la fiducia di Salvatore ed ottenne di essere trasferito a Lungro, in regime di semi libertà, ma qui, avendo prestato la sua opera di medico con successo e gratuitamente, venne rimandato a Ferramonti dopo la denuncia del medico locale. Tornato a Ferramonti vi rimase sino al 30 luglio del 1942 quando fu confinato a Santo Stefano D’Aveto, nell’entroterra genovese, dove rimase sino al 12 novembre del 1943. Da quel momento iniziò la sua latitanza sui monti, sentendosi braccato e vivendo con il terrore di venire catturato. Sono quegli gli anni che Isacco ricorda come i peggiori della sua vita. Finita la guerra ha svolto la sua professione di medico con successo, si è sposato, ha avuto un figlio ed è un lucido, colto, brillante e affascinante signore di 102 anni, questo si è davvero straordinario, che ha acconsentito ad incontrarmi. Nel mese di agosto insieme a Yolanda, arrivata dall’Inghilterra, per condividere foto, aneddoti incredibili, ricordi non sempre piacevoli che fanno di lui un testimone eccezionale di quello che accadde a Ferramonti. E hanno creato legami preziosi e fatto nascere affetto.

Da sinistra Inge e Isacco Friedmann. Accanto ad Isacco Yolanda Bentham

Se richiesto, posso inviare copie delle schede personali degli studenti che frequentarono l’Università di Genova. Ne approfitto per rignraziare la Sig.ra Roberta Rabboni, Capo Settore della Segreteria studenti Dipartimenti della Scuola di scienze mediche e farmaceutiche, senza la disponibilità e l’aiuto della quale non sarei mai potuta arrivare a questo materiale. Naturalmente sarò felice di accogliere memorie, foto che condividerò con gli studiosi del Museo. Tutto può contribuire a ricostruire questa storia, la giovinezza di chi con la propria vita è stato testimone sì di violenze e sofferenze ma aveva in sè il seme del futuro. E a ricordare che Ferramonti fu, in fondo, una storia di salvezza.